È una rincorsa che prendi fin dalle prime pagine, una spinta verso l’Eterno l’ultimo libro di don Marco Pozza, Chi dorme non piglia Cristo (Rizzoli, 2022). Si vive come uno slancio, con tutta la forza e l’intensità di cui dispongono un corpo e una mente per allungarsi, afferrare, cogliere il senso, anche il più recondito, dei Vangeli.



Non sono solo scontati commenti legati all’Anno liturgico A da sfogliare, in tranquillità e pantofole domenica dopo domenica, quelli del cappellano della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, ma pure immersioni dentro alle profondità evangeliche.

Di pagina in pagina don Marco avvicina i personaggi al nostro vivere oscillante tra Bene e Male, con la sua prosa in costante accelerazione fa scoprire che più di qualcosa di quanto narrato, a volte tutto, vibra ancora nell’uomo e nella donna di oggi. Che le parole di Cristo non sono morte, sepolte dopo essere state pronunciate una volta per tutte, ma riprendono vita, corpo, essenza, anche in questo istante.



Don Marco continua a usare la sua consueta cifra stilistica e sapientemente cuce insieme letteratura, citazioni e vangelo in un crescendo d’intensità e di verità di fede che per primo sperimenta nella sua vita di uomo in ricerca continua, mai sazia, mai appagata fino in fondo.

Perché scrivi che oggi “Gesù è la scommessa più intrepida”? Eppure andiamo in Chiesa per pregare Dio, celebrarlo, professarlo… Non basta?

Perché nessuno, al pari di Gesù Cristo, mi ha mai parlato di felicità in una maniera così leale da sfiorare la brutalità: mentre mi propone la salvezza non mi nasconde la miseria della storia, ma mi assicura che dentro tale miseria c’è una percentuale di bellezza nascosta apposta per me. Perché, desiderandola, inizi a possederla. Vivendo, in galera, con gli screanzati della società ho capito che non mi basta più parlare loro di Dio: o mi sforzo di diventare, per loro, Cristo oppure fallisco il bersaglio. “Se non ti sta bene – mi dico sempre – ricordati che nessuno obbliga a seguire Cristo”. Non voglio perdere in umanità per acquistare in spiritualità.



Ci sono tanti modi per leggere il Vangelo… Come ti sforzi tu di leggerlo in alta risoluzione?

In questo, ancora una volta, sono privilegiato: vivo in un ambiente nel quale il Vangelo ti accade sotto il naso. Ha un’evidenza così fosforescente che anche fossi cieco non riuscirei ad oscurare. È la forza d’urto tipica della carne sofferente: laddove il rischio di perdersi è più alto, maggiore è la presenza della grazia di Dio. Poi, a dirla tutta, non sono io che leggo il Vangelo in alta risoluzione: è il Vangelo che legge la mia storia accendendo dei fari così radiosi ch’è impossibile non esporsi alle loro radiazioni. Non ho problemi a incontrare Cristo: il mio problema resta quello di lasciarmi incontrare da Lui.

Esiste un modo per predisporsi all’incontro con Dio quando lo si ha perso del tutto o non lo si è mai trovato?

Mi piace pensare che nessuna storia sia mai andata così a fondo da pensare di se stessa che non ci sia una via d’uscita. La “sorpresa”, per me, è il concetto fondamentale, e fondante, del fatto cristianesimo. Nel doppio senso: “Mi hai sorpreso, Signore”, nel senso che proprio non me l’aspettavo questa tua irruzione inattesa in me. E nel senso di: “Mi hai sorpreso!”, mi hai colto con le mani nella marmellata, mettendo me nella condizione di fare verità della mia storia. Dove tutto è déjà vu, Cristo fa fatica a farsi spazio. Come quella volta a Nazareth: sapevano già tutto di lui che hanno bevuto quella novità paesana senza avere sete.

Non servono colpi da maestro a Dio. Colpiscono le righe in cui spieghi: “È nel tempo ordinario che il tempo dell’uomo diventa il tempo di Dio”. Perché Dio sceglie proprio i frangenti più banali?

Frequentare le righe della Scrittura Sacra per me è fare esperienza delle cose minuscole, quelle che sembrano non interessare più a nessuno. Frangenti di storie che appartengono, tutt’oggi, a gente che s’azzarda di creder nel rischio della salvezza, nel miracolo di una luce, nell’avverarsi di una felicità che si pensava scomparsa. Che, invece, è sempre a un passo dal possibile. Oggi gli uomini e le donne non cercano più Cristo attraverso le cose maiuscole, o per un ordine che trovano nell’universo. Oggi l’umanità cerca Dio per il disordine che trova dentro sé: mi piace ricordarmi che il cristianesimo (ri)nasce sempre da una catastrofe. Il fatto è che la nostra fede spesse volte ama indossare le pantofole invece che gli stivali.

Alla luce di questa rivelazione, quale significato assume per te il tempo dato alla tua esistenza?

È la più grande occasione che mi viene concessa per fare di me quell’uomo che Dio sogna che io diventi. Sono sempre stato convinto che ci sia una cosa più triste di non avere mai avuto un’occasione nella vita: è quella di averla avuta e di non averla saputa cogliere. Il “tempo” che vivo – assieme allo spazio nel quale vivo – è la mia “Terra Santa” su misura: è dentro questi pochi metri quadrati nei quali si sta svolgendo la mia vita che sono chiamato a migliorarmi. L’altra Terra Santa, quella in Medio oriente, è la versione ingigantita: ma è qui, in questo cuore che assomiglia ad una chiassosa riunione di condominio, che io sto giocando la mia personale storia della salvezza. Alla quale cerco di prestare estrema attenzione perché non potrei mai perdonarmi di averla data da vivere, in comodato d’uso per novantanove anni, a qualcun altro che non sia io.

(Tatiana Mario)

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