Beatrice, questo di solito il suo nome, è una giovane novizia che in convento svolge l’incarico di sagrestana, adempiendo ai propri obblighi con cura e un’allegrezza particolare; un giorno però il demonio, nelle sembianze di un bellissimo giovane, la seduce e la convince a lasciare tutto per seguirlo. Dopo alcuni anni, Beatrice decide di redimersi e tornare al proprio convento, pronta ad affrontare qualsiasi penitenza pur di ritrovare la pace e la serenità perdute; ma con sua grande sorpresa nessuno in paese si è accorto della sua fuga e infatti, ad aprirle la porta, è una suora con le sue stesse fattezze e il suo stesso viso, come se avesse davanti uno specchio.



In breve, richiamata dall’ultima Ave Maria pronunciata dalla fuggitiva prima di lasciare il convento, Nostra Signora era scesa dal cielo e, nelle vesti della novizia, aveva svolto il suo incarico fino ad allora. La storia si conclude con la ritrovata santità della ragazza, e una gran festa in paradiso per il ritorno di Maria.



Il racconto, un’antica leggenda medievale diffusa in tutta Europa, è stato ripreso più volte fino ai secoli più recenti. In Francia, saranno i fratelli Tharaud a pubblicarne una riscrittura per i Cahier di Charles Péguy; in Spagna, invece, José Zorrilla ne farà una storia tipicamente romantica; Beatrice ormai diventata Margherita, suora nel convento francescano di Palencia.

Proprio a Margarita la tornera e alla discesa di Maria dal cielo, Miguel de Unamuno dedica le prime strofe del suo breve poema, Il Cristo giacente del convento di Santa Chiara, il primo dedicato a un’immagine della Passione e che precede di sette anni, almeno per la pubblicazione, il più famoso Cristo di Velazquez.



Un inizio non appena di circostanza, solo per situare fisicamente l’opera cui si riferisce, ma, più, un punto focale della narrazione, senza il quale se ne perderebbe probabilmente la coerenza interna e lo sviluppo emotivo che l’attraversa.

In queste prime righe si ricorda la “Vergine tutta cielo”, impegnata nel suo servizio terreno nel convento, mentre

la povera Margherita, pazza,
assetata di amore eterno,
era andata a cercarlo dove non c’era,
nell’arido esilio di questa terra

e le sue sorelle, davanti all’immagine della Vergine Madre, loro stesse

vergini madri,
come un bambino cullano
il formidabile Cristo di questa terra.

Questo formidabile Cristo di Palencia, un Cristo deposto che si trova all’interno del convento, è anch’esso portatore della propria leggenda miracolosa.

Come tante immagini sacre che hanno raggiunto via mare anche le nostre coste, sembra infatti sia stato raccolto sulle acque dell’Oceano dalla nave guidata da don Diego Alonso Enrique, allora ammiraglio di Castiglia, nel 1377. Da lontano era sembrato una specie di fuoco fatuo che galleggiava sulle onde; in realtà si trattava di un’urna di vetro illuminata dall’interno dal chiarore emesso dal corpo esangue di un Cristo disteso.

La verosimiglianza della pelle, con le sue ferite e le sue piaghe, il sangue raggrumato, i capelli veri, tanto da far pensare a un corpo mummificato, suscitano un immediato turbamento; e nel confronto con le prime immagini di tenerezza del poema sembra che “questo Cristo della mia terra”, che è “solo terra”, secondo il refrain che accompagna lo svolgersi del poema, possa trascinare da subito con sé nella morte e nel nulla quelle stesse “vergini madri”, trasformandole in madri sterili e inutili, ridotte, dalla stessa “pazzia” di Margherita, ad accudire un figlio morto.

È il 1913 quando Unamuno visita il convento, e in due giorni, di getto, come a confermare la potenza dell’emozione patita, scrive il suo poema.

Sono parole forti, che scandalizzano, che vengono presto rigettate come blasfeme e anticattoliche, e che ancora oggi urtano la sensibilità e dividono: qualcuno che vi riconosce la prova dell’inclinazione protestante di Unamuno e chi invece vi ritrova solo un nichilismo esemplare.

Ma sul filo teso dei contrasti e delle opposizioni che reggono il poema – tra il cielo e la terra, l’eternità e il nulla, la sete (come quella di Margherita di un amore eterno”), l’aridità che presto si trasforma in morte e, ancora, tra Maria e suo Figlio – si può forse intravvedere quale sia la speranza e, in certo modo, la fede, cui il grido che contiene vuole dare voce.

Perché di grido, certo, si tratta; grido brutale, feroce, senza freni e senza precauzioni, trasparente di tutta l’angoscia dell’autore e di una generazione intera a venire; grido totalmente umano, che rivendica la propria disperazione, eppure rivolto a Dio come all’unico che ad esso potrebbe rispondere.

Infine, urlo secco, veloce, irrimediabile come un’esplosione, cui non si possono opporre arguzie o sofismi, ma solo la stessa istantaneità e immediatezza, verrebbe da dire la puntualità, che si ritrovano solo nel miracolo che accade improvviso, che travolge ogni realtà attesa o immaginata.

Un carattere “estremo”, nel quale si svela anche la natura di sfida del poema, quasi di provocazione, come quando si vuole offendere qualcuno perché reagisca, perché “almeno” risponda. Quasi l’offesa risentita e disillusa di un moderno Adamo contro il Dio che l’ha cacciato dal Paradiso, e destinata a risuonare in eterno dietro il portone che custodisce la morte.

Questo Cristo immortale come la morte
non resuscita, perché? non aspetta
se non la morte stessa.
(…)
O forse il Dio penitente
per alleviare il senso di colpa
di aver creato l’uomo,
e con l’uomo, il male e il dolore,
vestito di questo misero straccio,
volle provare la morte terrena?

In fondo, la stessa sfida, la stessa battaglia che Unamuno afferma di aver condotto lungo tutto la sua vita. “La mia religione è di lottare senza tregua e instancabilmente contro il mistero. La mia religione è di lottare con Dio dallo spuntare dell’alba al cader della notte, come dicono che con lui abbia fatto Giacobbe”.

Anche il campo di questo combattimento non è neutro; è infatti quella terra di Castiglia tanto amata da Unamuno, una terra deserta, arida, riarsa che si fa croce essa stessa, morta, di cui il Cristo di Santa Chiara diviene figlio, acquisendone i caratteri.

Nero come il pacciame della terra,
giace simile alla pianura, orizzontale, disteso,
senz’anima e senza speranza.

Con gli occhi chiusi in faccia al cielo
di pioggia avaro, che i pani brucia
(…) poiché questo Cristo della mia terra è terra.

Un Cristo dunque sconfitto e insieme ripugnante,

solo carne morta,
secco impasto incrostato di sangue,
sangue nero rappreso
(…) sacco di ossa e putridume
(…) un silenzioso brulichio di vermi…

Ma in questione non è ovviamente la crudezza della descrizione; piuttosto, l’irrisione, la negazione dell’intero progetto della salvezza; la capacità o meno del Cristo morto, deposto, solo, di risorgere, di sconfiggere la morte, o invece il suo fluire inesorabile nel nulla. Se sia soltanto “un Cristo incubo” il cui trucco è stato scoperto, il sogno dissolto; un Cristo da cui fuggire non perché orribile a vedersi, una misera carcassa messa a giacere”, ma perché “arida”, incapace di generare nuova vita, di mantenere la propria promessa.

Non c’è nulla di più eterno della morte;
tutto finisce – dice alle nostre pene -;
non è nemmeno un sogno la vita;
tutto non è che terra;
tutto non è che nulla, nulla, nulla…
un nulla che ripugna, che, al sognarlo,
appesta.

Qui, esattamente in questo punto, nel quale l’angoscia, la repulsione, lo scandalo per l’umanità di Cristo, per il suo corpo sfiatato e livido, rivela il punto apicale della sua immedesimazione con l’uomo, ognuno potrà dire se la domanda di immortalità di Unamuno, perché di certo di questo si tratta, volta a volta gridata o ammutolita che sia, contenga qui, tra queste parole, una speranza, un’attesa, o sia solo dileggio, contestazione, o pure sarcasmo. Se quel corpo che non è capace di risorgere sia quello del Dio incarnato o invece il simbolo estremo della pretesa dell’uomo, della sua volontà di salvarsi da solo.

Difficile infatti non intravvedere, dietro l’evocazione del nulla e della sconfitta, il fallimento di un’epoca intera, delle sue utopie, di ogni sistema di pensiero che si pretende “salvatore” dell’uomo, delle istituzioni che ne dettano le leggi (la Chiesa di Roma certamente tra queste); e difficile non vedere in quello specchio – come nel miracolo di Maria – il riflesso di Unamuno, costretto a riconoscere se stesso, il proprio volto disfatto, solo, incapace di immaginare da sé un destino eterno; liberato soltanto dal suo antico “dolore di pensare”.

Questo Cristo cadavere,
che come tale non pensa,
libero dal dolore di pensare,
dall’angoscia atroce che là
nell’orto degli ulivi all’altro
(…) fece chiedere al Padre
di evitargli il calice della pena.

Infine “l’altro”, ecco, comunque vicino, di carne, “i cui occhi dolci hanno spogliato il cuore di Maddalena”: il Cristo invocato in modo diretto, drammatico, con la secchezza della prostrazione, della stanchezza “infinita”, anticipato da un grido, quasi un richiamo, alla fine del poema.

E tu, Cristo del cielo,
redimici dal Cristo della terra!

No, l’ambiguità non è risolta, come Unamuno non riuscirà a risolvere il problema della fede, ma quel “Cristo del cielo” è certo il figlio della Vergine scesa dal cielo, evocata all’inizio, il Cristo cui si chiede esattamente di prendere il nostro posto, il nostro corpo, per poter essere liberi, per “tornare” quando saremo pronti; e come nella leggenda, l’angoscia così si sciolga improvvisa, con la sorpresa di un miracolo inaspettato e immeritato.

Unamuno stesso dirà di voler fare ammenda per un’opera così “feroce”, e comincerà subito a lavorare al Cristo di Velazquez, che però pubblicherà solo nel 1920. Un nuovo poema, considerato tra i più belli della letteratura spagnola religiosa moderna, una mistica immaginazione della salvezza, dei “meccanismi” della passione. Un testo studiato, misurato, cesellato, che rischia la freddezza delle compilazioni, nel quale le parole fluiscono in bilico tra la malia e la formula che funziona e si ripete uguale; e il cui costante rimando ai testi biblici ha il sapore guasto della precauzione, della rassicurazione.

Ci sarà modo di riprendere il Velazquez, ma tra le due prove (e limitandosi a queste), il Cristo giacente conquista, afferra, non può non scuotere chiunque lo legga con la sua intensità, sincerità, arditezza, l’assenza di infingimenti e cautele. E quel grido così umano, rivolto al corpo di Dio, che non sale in cielo direttamente dalla croce, ma si sporca anche con la terra del sepolcro, che stende la mano ad Adamo impaziente; quella sfida a chi “porta” il corpo di Dio, interpella ogni cristiano, gli chiede la concretezza di un abbraccio, e un abbraccio senza riserve, che oggi è forse la cosa più urgente e, certo, ciò che è mancato a Unamuno.