L’Italia – nonostante tutto – è da sempre terra di artigiani e creativi, di santi e poeti, non dovremmo mai dimenticarlo. Lo ha capito il geniale stilista del cashmere Brunello Cucinelli che la scorsa estate, ospite dello storico festival di poesia Cabudanne de sos Poetas di Seneghe (Oristano) ha raccontato il suo visionario progetto della Biblioteca Universale di Solomeo, mostrando l’importanza di una visione umanistica come base per lo sviluppo economico e tecnologico.
Sarà forse lo spirito mediterraneo di una buona parte del nostro Paese, la prossimità con l’elemento marino che circonda la penisola o la nostra storia di molteplici culture e dominazioni, ma siamo (ha ragione ancora Cucinelli) gente dal pensiero non lineare, imprendibile, pronta a trasformare in occasione di rinascita ogni imprevisto.
Lontano dal rumore di fondo in cui siamo immersi c’è chi, talvolta nel silenzio o nell’ombra ma con la fiamma sempre ardente – come la candela accesa di Gorčakov in Nostalghia di Tarkovskij – attraversa il nostro tempo nella serietà e profondità di un lavoro sulla parola e sulle sue imprevedibili possibilità.
Ecco allora che Pietro Federico con il suo La maggioranza delle stelle. Canto Americano (Ensemble 2020) ci conduce, attraverso un realismo visionario in cui si condensano memorie private e collettive, in un viaggio fisico e spirituale lungo le sconfinate terre americane. L’impresa di riunire i frammenti della propria storia e del sogno americano in un unico disegno epico è ambiziosa e allo stesso tempo titanica, ma il canto americano di Federico ha il merito di percorrere strade poco frequentate dalla poesia contemporanea, con squarci di autentica visione: “[…] Anche quando vedo sbandare / il pickup della polizia di frontiera / e la polvere della frenata alzarsi e inghiottirvi / gialla come una nuvola di zolfo so che non ne vuoi sapere / delle mille albe viste insieme incastonarsi nel golfo / ad Heroica Veracruz mentre mi chiedi di rifarlo. / Tu credi sia il college per nostra figlia / la visione di una grande casa / io so che è il tarlo di qualcosa che non ha nome / e che non è al di là del fiume” (pagina 129).
Su altri territori si muove la poesia creaturale di Massimiliano Bardotti, di cui è recentemente uscito per i tipi di Pequod La disciplina della nebbia (2022). Anche nel precedente La terra e la radice (Puntoacapo 2021) la sua scrittura era animata da un continuo soffio vitale, alla ricerca di una parola originaria per cui, sotto il segno di una costante apertura, si univano spunti e suggestioni di natura diversa, dal sufismo di Rūmī ai Vangeli, Dante, il francescanesimo fino ad arrivare alla grande lezione di Luzi: “Uno, come tutte le volte che ho pianto. / Uno è l’azzurro del cielo, Uno il coraggio. / Uno, lo sguardo che scruta il presente / e ci trova i tuoi occhi. / Uno è benedizione, candore di corpi / inebriati d’amore. / Uno è il Nome / Cantico delle creature, Creatore. / Uno, la voce che incantò l’universo / gli diede la vita. / Uno è l’amore” (pagina 13).
Sul versante della poesia in dialetto vale invece la pena segnalare due libri importanti. Il primo è Tutte le altre rose (Effigie 2021) di Davide Ferrari, autore con già alle spalle un libro come Dei pensieri la condensa (Manni 2015), vincitore del Premio Tirinnanzi. La lingua di Ferrari è il dialetto pavese parlato a Lardirago, paese della provincia di Pavia: “La rösa ad not l’è me un’umbrìa rigà / d’la lüna, la ma fa quasi pagüra / a vess lì fèrma in dal giardìn sbranà / dal temp, dai ôc ad la me gent scurlì / in dal vent d’la primavera” (La rosa di notte è come un’ombra rigata / dalla luna, mi fa quasi paura / lì ferma nel giardino sbranata / dal tempo, dagli occhi della mia gente scossi / nel vento della primavera, pagina 23).
Invece che un’antologia di testi sulla rosa, come ci si potrebbe aspettare, il libro di Ferrari è l’esito dell’ascolto profondo della realtà da parte del poeta, che nelle varie declinazioni della bellezza e fragilità della rosa trova il momento privilegiato per indagare sulla natura di sé e del mondo, come nella poesia finale dedicata al maestro Franco Loi: “La tua rosa più rosa di tutte le altre, / resterà sempre la rosa del mio cuore, / come un segreto nascosto nell’armadio, come le parole / che nascoste in gola sono diventate un rosario” (pagina 76).
E sono proprio le parole di Loi a concludere il libro di Ferrari, con quello che è l’ultimo scritto pubblicato in vita dallo scrittore milanese, che sottolinea ancora una volta l’idea di poesia come abbandono e ascolto delle profondità dell’essere: “Ogni poesia è come un sogno dove il poeta entra nel segreto dell’anima della rosa e al lettore non resta che abbandonarsi alla musica dei versi. Il dialetto aiuta la natura a farla sentire viva, aiuta la rosa a sbocciare”.
All’estremità geografica opposta di Ferrari troviamo invece il catanese Pietro Russo, che con Eppuru i stiddi fanu scrusciu (Le farfalle 2022) pubblica la sua prima raccolta interamente in dialetto siciliano. Se nel precedente A questa vertigine (Italic 2016) colpiva la ricerca verticale e tesa del poeta nello spazio-tempo della storia umana, in questo nuovo libro in dialetto l’orizzonte sembra allargarsi e distendersi accogliendo con incredibile forza lirica le sollecitazioni dell’esperienza umana.
La città di Catania, i migranti, l’amore e le cose amate e care, tutto il vissuto dell’autore è accolto e trasformato da questa lingua naturale, debordante ed “esplosiva”, in cui l’espressione sembra abbandonarsi alla potenza e libertà del suono: “matri scura terra anniata / unni sugnu ora? / fici casa na sta lingua / ddà tunnava / quann’a notti è chiù longa / matri scura terra anniata / acqua trasi sutta l’ugna / s’ammisca dintra stu sonnu / matri, a tia tonnu” (madre scura terra bagnata / dove sono ora? / ho fatto casa in questa lingua / là tornavo / quando la notte è più lunga / madre scura terra bagnata / acqua entra sotto le unghie / si mischia dentro questo sonno / madre, a te torno, pagina 26).
Infine, sempre verso sud, è Francesco Iannone a ritornare alla poesia con Prima opera del gesto (peQuod 2022), dopo il romanzo onirico e apocalittico Arruina (il Saggiatore 2019), alternando prose poetiche alla scrittura in versi. Non sembra qui importare la distinzione tra forme ma, che si tratti di brevi frammenti o sequenze più lunghe, nella poesia di Iannone emerge continuamente una domanda radicale sull’uomo e sul suo destino, un non detto che pulsa dietro il tessuto grammaticale e sintattico: “Cosa sia l’amore non si può dire. Forse quella nota che si impara intonandola senza preparazione. L’intero deposito di un respiro. Sei lì, fra lo scarto e la cara emissione di un fiato” (pagina 13).
“Dire questa calda umanità / sulla pagina dove domina la lode” (pagina 29): è forse questa – prendendo in prestito un verso di Iannone – la sfida della poesia, scendere a fondo nel nostro tempo ferito per ritrovare il canto.
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