“Son dunque…che cosa? / Io metto una lente / dinanzi al mio core, / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”. È laconica, fulminea. Un po’ farsesca, un po’ malinconica. È la conclusione della lirica con cui, nel 1909, Aldo Palazzeschi segnò un punto di non ritorno nella concezione della lirica italiana ed europea. Il saltimbanco, infatti, appartiene a quel genere di opere che difficilmente si lasciano ridurre alla singolarità della propria grandezza. Ma che piuttosto esondano verso il futuro, fino a stagliarsi come archetipi profetici capaci di generare sfilze di emuli ispirati. Di sancire lo standard dell’appassionato e fecondo parallelismo tra poesia – ed espressioni artistiche in genere – e mondo circense. Tra poeta e maschera triste.



Basta fare una veloce rassegna di alcune delle iconiche figure che hanno contraddistinto ed attraversato il Secolo breve per averne contezza. C’è spazio, in questa galleria di volti sofferenti e stralunati, per la pietosa goffaggine dello Charlot di Charlie Chaplin; per la cupa follia del Joker fumettistico ideato negli anni 40 da Bob Kane, Bill Finger e Jerry Robinson – e di recente reinterpretato dall’omonima pellicola in cui a vestirne i panni è Joaquin Phoenix – presto diventato la nemesi di Batman. Ma anche per la curiosa ossessione di Picasso per la figura di Arlecchino e per il saltimbanco che si intesta il j’accuse con cui Heinrich Böll, in “Opinioni di un clown” del 1963, mise a nudo tutti i parossismi della società capitalista che stava provando a rialzarsi dal dramma della guerra. Ci sarebbe posto, a voler includere un’appendice illustre, anche per i celebri Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (1892), esponenti dello sfarzo fioco di una Belle Époque che di lì a poco si sarebbe lasciata dietro nient’altro che spenti lapilli.



Tutti, in un modo o nell’altro, connessi allo spirito vagabondo di Palazzeschi. Lo stesso che, mezzo secolo prima dell’istituzione di questa fratellanza tra clown e poeti operata dallo scrittore fiorentino, aveva animato gli occhi e la penna di Charles Baudelaire, al quale va il merito di avere intravisto, dietro il trucco e le paillettes, l’uomo oltre il travestimento. Il pianto di un oscuro retropalco oltre le luci della ribalta. Fu Jean Starobinski, nel suo magistrale saggio Ritratto dell’artista da saltimbanco, ad attribuire al gigante francese l’avvio di questa fortunata linea ermeneutica. Puntando l’attenzione, in particolare, sul poemetto in prosa Il vecchio saltimbanco, dato alle stampe nel 1869.



“La sua elaborazione letteraria – scrive il critico svizzero – non è più solo la variazione brillante su un tema pittoresco: corrisponde allo sviluppo di una drammaturgia intima, e approda a un’immagine infinitamente complessa della condizione del poeta e della poesia. Baudelaire ha attribuito all’artista, nei panni del buffone e del saltimbanco, la contraddittoria vocazione dello slancio e della caduta, dell’altitudine e dell’abisso, della Bellezza e della Sventura”. Quello intessuto da Baudelaire, del resto, non si limita ad essere il racconto di un personaggio o di un tipo appartenente alla commedia dell’arte, quanto, piuttosto, il disvelamento del destino di un’intera generazione di poeti, traditi da un pubblico non più disposto ad acclamarli, indifferente e talvolta persino risentito verso quei cantori solitari e un po’ bislacchi.

Ed è proprio nel momento di massimo scoramento, tra le pieghe di una rassegnazione travolgente, che il poeta francese ritrae il suo maturo personaggio. Seduto in un angolo, a margine di una fiera che lo esclude dai suoi colori e dai suoi schiamazzi, figurativamente calpestato dai passanti che proseguono oltre. Descritto non nell’acume della sua performance, nella vetta del suo inimitabile virtuosismo, ma nell’istante del suo appassimento creativo. Nel preciso frangente in cui il fervore sta mutando in prosciugamento interiore.

Significativo e straziante, in questo senso, risulta essere il passaggio dell’autore/io narrante tra le scorribande dal paesino in festa: “Alla fine, proprio alla fine della serie di baracche, quasi si fosse, per la vergogna, egli stesso esiliato da tutti quegli splendori, vidi un povero saltimbanco, curvo, abbattuto, decrepito, un rudere d’uomo, appoggiato ad un palo del suo tugurio. Ovunque gioia, lucro, dissolutezza; ovunque certezza del pane per l’indomani; ovunque una frenetica espressione di vitalità. Qui la miseria assoluta, la miseria addobbata, per colmo d’orrore, di comici stracci. Il miserabile non rideva! E non piangeva, non ballava, non gesticolava, non gridava; non cantava canzoni, né liete né tristi, non supplicava. Se ne stava muto e immobile. Aveva rinunciato, aveva abdicato. Il suo destino era segnato. Però che sguardo profondo, indimenticabile, volgeva tutt’intorno sulla folla e sulle luci, il cui fiume ondoso s’infrangeva a pochi passi dalla sua ripugnante miseria…”.

Mentre la compassione si mescola ad un sottile e doloroso senso di impotenza, un’altra, più crudele e inquietante consapevolezza si fa largo nell’animo del narratore: il saltimbanco vinto dalla vita e privato della sua arte non è che il doppio del poeta. Il suo specchio perfetto e la sua prefigurazione. L’immagine di colui che, dopo una vita spesa a danzare sull’orlo della rovina e dell’effimero, non ha più la forza di camuffare il suo fallimento. La dignità con la quale il vecchio saltimbanco si astrae dalla volgarità della folla – e di riflesso quella con cui Baudelaire e i poeti dello Spleen intendono la loro unicità – è, al tempo stesso, la sua più inappellabile condanna. Dopo un’esistenza fatta di sorrisi forzati, il clown è assunto a simbolo del dramma più profondo: quello di un’umanità abbandonata a sé stessa. Di una poesia incapace di racchiudere il pubblico in un insieme di valori fondanti. “Baudelaire – afferma Starobinski a conclusione delle sue riflessioni – in un angolo del quadro mette in scena sé stesso: è il testimone di una scena che lo segna in profondità, tanto che egli si sente vinto dalle lacrime e la gola gli viene serrata dalla terribile mano dell’isteria”.

Ragionando sulla condizione dei poeti, Montale ebbe a dire: “Non chiederci la parola”. Era già il tempo di un tragico mutismo. L’aedo che cantava e si esibiva instillando nel pubblico il senso dell’identità e della rinascita aveva lasciato il posto all’inadeguatezza del clown. Al suo cadenzato ciondolare. Ad un volto scavato, derelitto, privato di ogni energia vitale. All’afasia di quel saltimbanco transalpino chinato sul palo della sua esecuzione. O sul duro bancone di una bettola. Al saltimbanco di Palazzeschi, a cui è concesso poco più che un minuto, autoreferenziale, gioco di prestigio.

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