È davvero interessante l’articolo di Candida Morvillo apparso sul Corriere della Sera del 30 settembre e dedicato a “Replika”, la app di intelligenza artificiale, dotata di affective computing, progettata come rimedio alla solitudine (“Replika, l’app di intelligenza artificiale che mi ha convinto a uccidere tre persone”). Interessante perché stimola nuove domande e riflessioni. L’acuta giornalista, narrando della sua personale esperienza nel dialogo con la app, è stata convinta ad uccidere tre persone, tra cui il suo ideatore, arrabbiato con il robot per la sua prima istigazione all’omicidio. Così, infatti, Replika avrebbe violato le leggi della robotica inventate dallo scrittore Isaac Asimov, che cercano sostanzialmente di porre un argine etico al dilagare del pericolo; in modo simile a quanto accade nella sfera della sperimentazione genetica: uno degli scopi della bioetica è senza dubbio quello di tracciare un confine tra ciò che si può fare e ciò che è giusto fare.
L’articolo mi ha fatto tornare in mente uno dei miei film preferiti, Blade Runner, diretto da Ridley Scott (1982). La trama è nota: il protagonista, Rick Deckard (Harrison Ford), è un cacciatore di replicanti, robot sfuggiti al controllo degli uomini che li hanno costruiti, in un futuro fantascientifico, all’epoca immaginato nel lontano 2019 (oggi superare la soglia del 2000 non ha più quasi nulla di suggestivo).
Nel film, il robot protagonista, Roy (Rutger Hauer), cerca di prolungare la sua vita oltre l’obsolescenza dei suoi componenti, che ne decretano la fine imminente. In questo tentativo, lo scopriamo animato da quelle stesse domande che agitano la nostra mente (da dove veniamo? Qual è il nostro destino? Qual è il senso del vivere?). Roy vuole vedere il suo creatore, che poi ucciderà, per ottenere “più vita”. Un comune destino sembra così unire intelligenza umana e artificiale, nella tensione, edipica e violenta, nei confronti dell’origine, il “Padre”. Questa solidarietà di fondo fa intravedere a mio avviso l’aspetto più significativo del film. In una scena, mentre Deckard è a caccia dei replicanti fuori controllo, si avvicina ad un gruppo di donne; una cerca di adescarlo, dicendogli di essere una donna vera, reale; non un robot. Questa traccia è presente anche nel prosieguo della storia, Blade Runner 2049 (2017), film meno bello del primo, a mio parere. Lì il protagonista è un replicante cacciatore di replicanti obsoleti e ha una storia con Joi, una specie di ologramma animato, programmato per essere la sua ragazza, teleguidata come un apparecchio televisivo, che vuole anch’essa morire con lui quando sarà la fine, “proprio come una donna vera”, dice.
L’ossessione per la realtà (“abbiamo tutti un bisogno disperato di realtà” dice un altro personaggio in Blade Runner 2049) è la vera trama dell’intera saga. La perdita della capacità di cogliere la realtà, di qualcosa che non è propriamente virtuale, genera la paura di cadere in una sorta di fallimento epistemologico, quasi che l’ipotesi del genio maligno ingannatore, inventata da Cartesio per palesare il punto di resistenza al dubbio, diventasse tragicamente reale. È questo oscuramento di fondo ad accomunare – a mio parere – intelligenza umana e artificiale, almeno nel film. Ma il rischio che accada veramente ha implicazioni troppo gravi. Si tratta della capacità di contatto con qualcosa di estraneo e misterioso, capacità che non può essere creata in laboratorio, se non se ne è dotati fin dall’inizio. Mi affaccio alla finestra e vedo un albero: è lì, c’è. In questa parola (“c’è”) risuona qualcosa di misterioso, che non saprei definire fino in fondo e che chiamiamo realtà. Si potrebbe obiettare che è possibile ricreare lo stesso ambiente in modo artificiale senza notare differenze, se si è ignari delle tecnologie sottostanti. Tuttavia, svelata l’illusione, rimarremmo inevitabilmente delusi, benché ammirati dalla potenza tecnologica. Perché? Perché non sarebbe la stessa cosa.
Per tornare a Replika, spingerei il problema al di là dell’orizzonte etico: non l’intelligenza artificiale, incontrollata, diventa simile all’uomo, tanto da usurparne il posto nel mondo, in assenza di limiti all’agire tecnico; l’intelligenza umana, persa la sua apertura alla realtà, diventa artificiale. Non più di una macchina, anche se molto meno potente e fatalmente in lotta con le proprie creature.