un tavolo da 7, tutti
che ridono forte, senza smettere,
in un modo quasi assordante,
ma non c’è gioia nella loro
risata, sembra
meccanica.
finzione e falsità
avvelenano l’aria.
sembra che gli altri avventori non lo
notino.

Non sarà capitato solamente a Charles Bukowski: la percezione, soprattutto estiva, di una immotivata allegria imposta come un imperativo, in cui non può proprio trovare spazio – non è mai il momento giusto – quel che Pavese chiamava “la cosa che è più nostra e portiamo nel cuore”. Forse quel tavolo rumoroso non è una casuale eccezione, la sfortuna di una sera, ma una costante dell’universale spensieratezza:



avrei dovuto capire
da un pezzo che è così
e basta:
che dappertutto ci sono tavoli da 2,
3, 7, 10 o anche più
con gente
che ride senza motivo e
senza gioia,
che ride per niente senza
trasporto,
e che questa è una parte inevitabile
di tutto,
come un albero, una strada, un rospo.

La strada, infatti, conferma come si arrivi a sentirsi perfino colpevoli per qualche inquietudine che al mondo parrebbe assurda. “Talor, mentre cammino per le strade / della città tumultuosa solo”, scriveva Camillo Sbarbaro, “guardo / la gente con aperti estranei occhi”. Per un attimo fugace il poeta ligure riesce a scorgere il segreto “dolore che mise quella piega / sul loro labbro, le speranze sempre / deluse”: non c’è dubbio, a nessuno di loro mancherà la ferita di un dolore, di una delusione,



[…] ma vanno
dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
occupato dall’attimo che passa,
distratto dal suo vizio prediletto.

Provo un disagio simile a chi veda
inseguire farfalle lungo l’orlo
d’un precipizio, od una compagnia
di strani condannati sorridenti.

Sono interessi minuscoli (vizi prediletti) a riempire la giornata, la pancia e la testa, dilatando le labbra in mostruosi sorrisi convenzionali che squalificano come inopportuna ogni lacrima. Mentre “tutta vestita a festa / la gioventù del loco / lascia le case, e per le vie si spande”, non resta che la sconcertante impressione di ritrovarsi tagliati fuori dal mondo, come passeri solitari costretti a nascondere in qualche torre il proprio segreto, dal momento che è partita impari aprire una breccia tra gli appagati.



Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”

Conta poco che la frase sia tratta dall’ultima pagina del Mestiere di vivere di Cesare Pavese, ogni persona sensibile qualche volta l’avrà pensato: sarebbe bello conoscersi, parlarsi, capirsi… ma non c’è niente da fare. Al culmine di questa incomprensibile prigione che obbliga a fingere e a darsi un tono, si presenta come una resa dei conti l’istante drammatico, alla foce di un fiume di ciarle, in cui affiora un’estraneità finanche nei confronti di se stessi, il disagio di una mancata coincidenza con la propria anima, fotografata in questa scena pirandelliana:

“Ah, li conosco bene anch’io, questi buoni amici del caffè! Parlano tutti così, con uno stile burlesco sforzato, e ciascuno s’eccita alle altrui esagerazioni verbali e prende coraggio a dirne qualcuna più grossa, che non passi però la misura, non esca di tono, per non essere accolta da un’urlata generale; si deridono a vicenda, fanno strazio delle loro vanità più carezzate, se le buttano in faccia con gaja ferocia, e nessuno in apparenza se n’offende; ma la stizza, dentro, s’accende, la bile fermenta; lo sforzo per tenere ancora la conversazione su quel tono burlesco, che suscita le risa, perché nelle risa comuni l’ingiuria si stemperi e perda il fiele, diviene a mano a mano più penoso e difficile; poi, del lungo sforzo durato resta in ciascuno una stanchezza di noja e di nausea; ciascuno sente con aspro rammarico d’aver fatto violenza ai proprii pensieri, ai proprii sentimenti; più che rimorso, fastidio della sincerità offesa; disagio interno, quasi che l’animo gonfiato e illividito non aderisca più al proprio intimo essere; e tutti sbuffano per cacciarsi via d’attorno l’afa del proprio disgusto; ma, il giorno appresso, tutti ricascano in quell’afa e daccapo ci si scaldano, cicale tristi, condannate a segar frenetiche la loro noja”.

Pare non esista modo di liberarsi dal “tunnel del divertimento”, che non si dia comunque alternativa pratica, che il muro del nulla non presenti crepa. Lo intuisci dalle foto e dalle storie in cui ostentano, soddisfatti e innamorati, le loro spiaggette, le loro tavolate, le loro serate, i loro viaggi, i loro resort, le loro corsette, le loro conquiste, le loro chiappe: è tutto qui, cos’altro vai cercando? Perfino Leopardi tremava sedendosi al bar, tra nuvole di fumo, bicchieri, chiacchiere e ottimismo:

Alfin per entro il fumo
De’ sigari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.

Son tutti fiori, lasciamo perdere il deserto; ai dispiaceri non vale la pena pensare, tutto passerà, è già passato. Come per magia la somma di mille individui disperati dà come risultato un crocchio di buontemponi: è l’approdo di chi ha imparato a stare al mondo. L’ansia di diventare come gli altri giungerebbe a buon fine, se a volte, mentre di notte rientri a casa, non ti assalisse quel tormento involontario che cantava Francesco Guccini:

E l’eco si è smorzata appena
delle risate fatte con gli amici
dei brindisi felici
in cui ciascuno chiude la sua pena

in cui ciascuno non è come adesso
da solo con sé stesso
a dir “dove ho mancato, dov’è stato?”
a dir “dove ho sbagliato?”

Eppure fa piacere a sera
andarsene per strade ed osterie
vino e malinconie
e due canzoni fatte alla leggera

in cui gridando celi il desiderio
che sian presi sul serio
il fatto che sei triste o che t’annoi
e tutti i dubbi tuoi

Esiste qualcuno che prende sul serio questo desiderio segreto? Se da qualche parte ci fosse, non sarebbe più indicibile, come “un represso gemito / di cui non si sa, di cui non si dice” (Pier Paolo Pasolini). Invece lì, nascosto – ingombrante in ogni tavolo, eccentrico su ogni strada –, fa muffa. E il nobile atteggiamento di non appartenere ai clan dell’euforia obbligatoria non disseta: servirebbero altri tavoli, altre parole, in cui le risate non escludano le pene, l’anima torni a prendere la sua forma e ciascuno possa essere con gli altri proprio come è quando si ritrova con se stesso. Forse è impossibile, ma “chi non spera l’insperabile non lo scoprirà”: aveva ragione Eraclito. E anche Bukowski:

così, mi accontento della mia buona sorte
ma non posso fare a meno di chiedermi
se al mondo sia rimasto un angolo
con un tavolo da 7 dove
si provano sentimenti autentici,
dove c’è
una bella risata vera.
spero di sì.
devo sperare di sì.