Abbiamo saputo, per la prima volta, cosa fu il socialismo reale nell’Europa dell’Est quando, nella primavera del 1986, la nube radioattiva prodotta dallo scoppio di un reattore alla centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina raggiungeva l’Italia: e, nella primavera di cinque anni dopo, quando alcune navi da carico di lamiera grigia stipate di persone fino e oltre i parapetti del ponte attraccavano nel porto di Brindisi provenienti dall’Albania, dove stava per cadere il regime socialista.



Oggi forse, mentre guardiamo la serie britannica Chernobyl del 2019 (prodotta da Hbo e Sky Atlantic) e nell’imminenza della presentazione del docufilm della brasiliana Iara Lee Stalking Chernobyl: Exploration After Apocalypse in programma alla XII edizione di SiciliAmbiente Film Festival, a San Vito Lo Capo dal 4 all’8 agosto, stiamo scoprendo, attraverso il Covid, cos’è il socialismo reale in Cina. Anche se non sappiamo se questo evento produrrà effetti simili a ciò che successe in conseguenza di Chernobyl e delle proteste del triennio 1989-1991 a est della Cortina di ferro e nei Balcani, delle quali quella albanese era uno degli ultimi atti: la caduta dei regimi legati all’Urss, la riunificazione tedesca, la fine del Patto di Varsavia e dell’Urss, e la nascita del cosiddetto “mondo unipolare” attorno all’atlantismo statunitense.



“Morire per Hong Kong” potrebbe comunque essere, come lo fu nel settembre del 1939 agli occhi di Francia e Gran Bretagna “morire per Danzica” di fronte all’invasione nazi-sovietica della Polonia, uno slogan non del tutto privo di significato. Il socialismo, dopo il settantennio sovietico, sopravvive infatti nella più grande superpotenza dell’Estremo Oriente ed esercita ancora qualcosa di quell’“universale fascino” di cui parlava François Furet a proposito della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, dalla quale nacque l’Urss. L’alternativa offerta dall’Occidente (Stati Uniti e Unione Europea) mise in ginocchio l’Urss e i Paesi dell’Est Europa ad essa legati alla fine degli anni Ottanta del Novecento, ma oggi potrebbe non risultare in grado di vincere la sfida con la Cina.



La quale è certamente la patria della negazione dei diritti umani, in primis la libertà religiosa, come lo fu già l’Urss: in questo seguendo alla lettera la lezione di Marx, che aveva previsto che proprio il socialismo doveva essere la fase intermedia, dopo il crollo della borghesia e prima dell’avvento del comunismo, caratterizzata dalla dittatura del proletariato (più immaginario che reale). Pechino, tuttavia, segue una politica economica che l’Urss non mise quasi mai in atto: autorizzare le aziende private a sfruttare la manodopera anche in settori diversi dall’industria pesante e degli armamenti. E quindi possiede quella marcia in più capitalistica, mutuata dall’Occidente atlantico (ma realizzata a un costo umano elevatissimo rispetto a quello occidentale), che la differenzia dall’Urss: la quale, non avendo voluto essere capitalista, pagò la scelta di non accodarsi alla Silicon Valley perdendo il treno della storia e implodendo, per ammissione di Gorbacev, sotto i colpi della crisi produttiva.

È certo comunque che l’ideologia del mondo nuovo, di cui parlava Aldous Huxley nel 1932, non è tramontata, ma si è solo tolta la maschera armata che aveva nel “secolo breve” per indossarne una economica, trasformandosi da “forte” in “debole”: come scriveva Robert Conquest nel 1999, parlando di neomarxismo come precipitato irrazionalista del marxismo e lanciando quindi un’accusa che riguardava in primis l’Occidente. Che oggi combatte contro l’opulenza asiatica, ma avendo le armi spuntate forse perché anch’esso ruota esclusivamente attorno al modello sociale del benessere. La Storia quindi, che Francis Fukuyama aveva detto essere finita all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, continua, come egli stesso si vide costretto a riconoscere, nel 2002, cambiando la sua tesi di fronte all’avanzata della globalizzazione: per dare un senso al proprio procedere nel tempo, l’umanità sembra avere ancora bisogno di idoli.