Le scorse settimane hanno proposto a tutto il mondo le immagini straordinarie e indimenticabili di Papa Francesco pellegrino di pace in Medio oriente. Sulla figura del pellegrino si è soffermato l’arcivescovo di Milano nella santa Messa per don Giussani (“è un viandante, ma non è un girovago, che obbedisce a una parola che lo guida.
Il pellegrino non cammina senza criterio: distingue la via degli empi e la strada dei giusti … Cammina insieme con molti, appartiene a un popolo, a una carovana, ma sa che nessuno lo può sostituire nel rispondere alla voce che lo chiama”). Ma che significa esattamente “pellegrino”, parola in cui storia linguistica e storia culturale sono indissolubilmente legate?
Il punto di partenza è il latino peregrinus, derivazione dell’avverbio peregri, “all’estero”, a sua volta voce del rarissimo aggettivo pereger, “straniero”. Quest’ultimo ha un’etimologia sicura, da per “attraverso” e –egr-che, tenendo conto delle normali evoluzioni fonetiche del latino, ci porta ad ager (da agros) e ai termini indoeuropei connessi (il sanscrito ajra-, il greco agrós, il tedesco Acker e altri). In origine la parola non indica tanto il terreno destinato alla coltivazione quanto una larga distesa di territorio indiviso e incolto, come si deduce anche dai derivati latino (agrestis “rustico, rozzo”) e greco (ágrios “selvaggio”).
Peregrinus è tutto ciò che non è in relazione con la patria originaria, tutto ciò che è forestiero: cosa (navis, caelum, verbum) o persona. In una commedia di Plauto, autore mai condizionato da scrupoli di correttezza politica, leggiamo la battuta seguente: Peregrina facies videtur hominis atque ignobilis (“mi sembra una faccia straniera e per di più di un poco di buono”). Per tutto il corso della latinità peregrinus e peregrinatio hanno solo il senso di “straniero” e “soggiorno o viaggio in territorio straniero”, non quello acquisito successivamente di “persona devota che si reca per motivi di fede a visitare reliquie e luoghi di culto lontani”.
Al di là di questa precisazione terminologica, la pratica del pellegrinaggio è diffusa fin dagli albori del cristianesimo. Sappiamo che già nel II secolo i pellegrini cristiani affollavano numerosi i luoghi della Natività, tanto che l’imperatore Adriano (117-138), che pure non fu tra i più intolleranti, irritato dalla cosa fece innalzare nei pressi un tempio ad Adone per attirare una presenza di pagani. Nei secoli successivi il pellegrinaggio diviene anche un fatto culturale, e vengono prodotti numerosi testi di esperienze di viaggio, memoriali, guide, tanto nel mondo latino quanto nel mondo greco-bizantino e slavo.
Il testo più noto è la Peregrinatio ad loca sancta di una monaca dell’Aquitania, Egeria (o Eteria, IV-V secolo), non meglio conosciuta, che racconta alle sue consorelle le esperienze di un lungo soggiorno in Palestina e nei paesi circostanti in uno stile vivace e in una lingua che risente fortemente di forme e modi di dire del latino parlato.
Dante Alighieri (Vita Nova 69) ci insegna che esistono tre specie di pellegrini: i palmieri, che valicano il mare e tornano con una palma; i romei, che si recano a Roma per visitare la Veronica; i pellegrini in senso stretto, che vanno in Galizia alla tomba di San Giacomo, che, tra le tombe degli apostoli, è quella più lontana dalla patria originaria.
Il passaggio al significato attuale si attua nelle lingue romanze, ove peregrinus compare sia nella forma peregrino (spagnolo e portoghese peregrino) sia nella forma pelegrino (catalano pelegrí, francese pélerin, rumeno pelerin), con quella che i linguisti chiamano una dissimilazione (il parlante trova scomode le due –r– in due sillabe consecutive e sostituisce la prima con –l-). La parola trova poi accoglienza anche al di fuori del mondo latino, per esempio, in albanese (pelegrin), maltese (pellegrin), nel mondo germanico (ove, con diverse e complicate trasformazioni fonetiche, abbiamo, per esempio, in inglese pilgrim e pilgrimage, e in tedesco Pilger, più anticamente piligrim e poi pilgerim) e da qui nel lituano piligrimas.
Accanto a pellegrino esiste ancora nel significato antico di “straniero” l’aggettivo peregrino, che ha sviluppato il senso di “estraneo, non rispondente alla sua funzione abituale” e dunque inappropriato o inaffidabile: una risposta peregrina, cioè strampalata, incredibile.
Dal Medioevo in avanti il pellegrinaggio diventa una metafora della vita cristiana. Il pellegrino è un visitatore temporaneo in una terra che non è la sua: viene accolto e ospitato, gli viene concesso l’uso dei beni, ma sa che presto dovrà lasciare il paese per ritornare a quella che è la sua vera patria. Così il cristiano è in visita sulla terra, ma sa che la sua vera patria è il cielo, e a questo deve tenere fisso lo sguardo.
Il cristiano, dunque, è nella stessa condizione degli Ebrei, che, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei 11,13, morirono “senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”.
Si tratta per la verità di un’interpretazione poco corretta, perché qui pellegrini si rifà a peregrini della versione latina, ma nella versione latina della Bibbia peregrinus significa sempre e soltanto “straniero”, come mostrano i confronti coi testi originali ebraici, aramaici e greci. Ci saremmo aspettati “ospiti e stranieri”: la resa con pellegrino non è delle più precise.
Una sintesi efficace dell’idea la troviamo nelle parole del padre domenicano Domenico Cavalca (XIV secolo), che nello Specchio della Croce scrive: “Cristo non riceve se non coloro che in questo mondo sono peregrini, cioè che poco ci hanno il cuore, perché desiderano di pervenire alla città del paradiso”.
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