C’è nel mondo grecoromano un’idea ricorrente a proposito della guerra. Al di là degli eroismi di singoli o di popoli, al di là del patriottismo o del bisogno di nuovi spazi d’abitare, emerge la constatazione che la guerra disumanizza, che innescare la logica della guerra significa modificare le persone, trasformare le vittime in oppressori, gli amanti di pace in uomini privi di pietà. Fra le diverse saghe che si succedono nelle genealogie mitiche, una delle più famose è quella dei Sette contro Tebe. Tutti e tre i tragici ne hanno fatto materia di riflessione, pur variando in diverso modo la vicenda. Eschilo l’ha trattata nella trilogia legata al mito di Edipo, di cui la tragedia superstite (I Sette contro Tebe) costituisce l’ultimo atto, Sofocle ne ha indagato le conseguenze nell’Antigone e i prodromi nell’Edipo a Colono, Euripide l’ha cantata nelle Fenicie, e di nuovo nelle sue conseguenze nelle Supplici.



Il nucleo fondamentale vede la rivalità fra due fratelli per il regno di Tebe: di chiunque dei due sia la colpa iniziale del dissidio, ora Eteocle occupa il trono, mentre Polinice, esule dalla patria, cerca alleati, stringe parentele, organizza un esercito per assalire la propria città. Non c’è dubbio che portare nemici contro la patria, sottoporla ad un assedio che dovrebbe terminare con stragi, violenze e schiavitù per i propri concittadini, sia un’azione nefanda; e la presentazione degli alleati, i sei che con Polinice assediano Tebe, li mostra tracotanti e minacciosi, privi di scrupoli sull’esito finale di un’impresa che non li tocca se non per desiderio di conquista: “questo è colui che intende consegnare prigioniere con la sua lancia le donne tebane a Micene”, è la spaurita descrizione del più terribile di loro, l’empio Capaneo, nelle parole di Euripide.



La guerra termina con la vittoria tebana, i capi stranieri giacciono morti, i due fratelli rivali si uccidono a vicenda nell’ultimo duello. Il Coro nell’Antigone canta l’alba gioiosa della città libera: “Raggio di sole / la luce più bella fra tutte, / apparsa a Tebe dalle sette porte! / finalmente ti sei mostrato, occhio di un giorno d’oro, / giungendo sopra le correnti di Dirce, / e i guerrieri argivi dai bianchi scudi / carichi d’armi, / hai messo in fuga in rapida corsa!”.

Ma i Tebani da potenziali vittime diventano essi stessi oppressori. Nelle intenzioni del nuovo sovrano il traditore dovrebbe restare insepolto a corrompersi, come monito ed esempio; eppure in tutta la tradizione il rispetto dei nemici uccisi è qualcosa di più di un’usanza, Antigone la proclama come una legge divina che nessuna legge umana può violare; morirà lei stessa per aver cercato di dare onori funebri a Polinice, unica fra tutto il popolo.



Nelle Supplici di Euripide il problema si allarga, la decisione dei Tebani investe tutti i nemici uccisi e rimasti insepolti nella piana di Tebe. Il poeta mette in scena le donne dei vinti, vecchie madri argive venute ad Eleusi, la città santa degli Ateniesi, a supplicare l’anziana regina madre di Teseo perché ottenga l’intervento di Atene. Dalla discussione fra madre e figlio emerge la questione di fondo: se la guerra dei Sette era ingiusta, perché ora prendere le difese degli assalitori? Teseo ha parole durissime con Adrasto, l’anziano superstite della guerra che accompagna le donne: “E io dovrò essere tuo alleato? E che dirò di bello ai miei cittadini? Vattene! Se hai preso decisioni sbagliate, abbraccia la tua sorte e lasciami stare”. Ma la madre lo rimprovera, in nome del luogo santo in cui le supplici sono giunte: “Io anzitutto, figlio, ti esorto a badare agli dèi, per non sbagliare trascurandoli. Solo in questo sbagli, nel resto pensi bene. Inoltre, se non si dovesse osare a favore di chi subisce torti me ne starei tranquilla. Ma nei confronti di uomini violenti, che impediscono ai morti di ottenere sepoltura e onori funebri, non temo di esortarti a costringerli a questo e a farli smettere di rovesciare le tradizioni comuni a tutta la Grecia”. Sia la regina sia Antigone si appellano agli dèi per ricondurre all’umano, dopo la deviazione che la guerra ha provocato.

Nell’Eneide virgiliana incontriamo come un punto di non ritorno. Enea è uscito da Troia in fiamme, sa che è stata distrutta, le prede spartite, il piccolo figlio di Ettore gettato dalle mura; è in cerca di un luogo di pace indicato dal destino dove ricominciare; il re del Lazio lo accoglie, anch’egli convinto da indicazioni divine che corrispondono. L’intervento di Giunone, l’ambizione del rivale Turno, la debolezza dello stesso re implicano di nuovo Enea e i suoi in una guerra non voluta, li costringono a un nuovo assedio, a cercare alleanze in un paese ignoto.

Che Enea sia riluttante nei confronti della guerra è continuamente ribadito. Ma quando viene ucciso Pallante, il giovane che gli è stato affidato, è come se da quel momento la prospettiva mutasse, si combatte per uccidere. Nel corteo che deve riportare il cadavere al padre vi sono anche dei nemici catturati “da inviare alle ombre come offerte funebri, cospargendo del sangue degli uccisi il rogo”. Al supplice che gli chiede la vita Enea ribatte: “Turno ha eliminato per primo gli accordi di guerra uccidendo Pallante”. E nell’ultimo duello nuovamente per il nemico vinto non è rimasta pietà.

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