“Uffa, mi sono stufata di vivere…” Così singhiozza Gelsomina, nel film La strada di Fellini, all’inizio del suo dialogo con il Matto. Non piange perché Zampanò la schiaffeggia e la maltratta, non si lamenta perché la vita è dura e il cibo è poco. Piange per ben altro. “Io non servo a nessuno… che ci sto a fare a questo mondo?”.



Il desiderio di servire a qualcosa o a qualcuno, di lasciare un segno, di essere al mondo per uno scopo, tutti ce l’abbiamo iscritto nel cuore, ognuno di noi, come Gelsomina.

Quando don Giussani nel 1987 ad Assago, intervenendo all’Assemblea della Dc lombarda, aveva “osato” parlare di senso religioso e di desiderio come fattori fondanti la responsabilità e l’azione degli uomini, tanti avevano storto il naso di fronte a parole che parevano utopiche, merce non per politici. Proprio il pianto di Gelsomina e lo storico intervento di Assago mi sono tornati in mente, leggendo sul Corriere della Sera un recente contributo in cui Ferruccio de Bortoli denuncia “una sotterranea corsa a contrastare e limitare la concorrenza” e aggiunge che “se vogliamo tornare a crescere … dovremo puntare sul desiderio individuale di scalare le montagne, non sull’ansia di conservare le quote acquisite da chi è già arrivato in cima”. Il desiderio individuale, personale, di ogni uomo, è dunque qualcosa che serve a far funzionare il mondo, nella fattispecie anche l’economia.



Torna ancora in mente don Giussani che, pochi mesi dopo l’intervento di Assago, in un’intervista aveva ribadito “il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore. Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo dell’uomo. Il desiderio accende il motore dell’uomo. E allora si mette a cercare il pane e l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si interessa a come mai taluni hanno e altri non hanno…”.

La cosa strabiliante è che questo nostro darci da fare non solo fa girare il mondo, “combatte l’accidia da divano” (per usare ancora un’espressione di de Bortoli), ma ci fa essere contenti, ci appaga e ci corrisponde. 



Lo spenderci per migliorare le condizioni proprie e degli altri, perché il mondo vada meglio, il sacrificarsi per il bene dell’umanità, non è un mestiere per pochi, ma è il destino iscritto nel cuore di tutti. Siamo fatti per andare dietro a questo desiderio, non per fermarci a vivere di rendita. Non è un dovere etico o civile ad imporcelo, ma la natura del nostro cuore ad esigerlo. L’infinito lo abbiamo iscritto nel cuore, è per questo che siamo fatti per non fermarci, per non vivere di rendita, per accettare di correre e di “concorrere”, per non “affondare nel tempo” e “non accettare l’orizzonte dell’isola”. Nei Dialoghi con Leucò di Pavese (la poesia ci serve sempre perché vede più di ciò che l’intelletto sa spiegare!) la dea Calipso cercherà di trattenere per sempre Ulisse/Odisseo nell’isola di Ogigia, e cercherà di placare l’inquietudine dell’eroe che continua irrimediabilmente a desiderare il mare aperto. “Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Devi rompere una volta il destino e lasciarti affondare nel tempo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?”

E qui la risposta dell’eroe greco mostra la grandezza drammatica di chi non “sa”, di chi non conosce la Verità del destino, ma non può non riconoscere ciò che ha impresso nell’animo: “Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te”.

Siamo fatti per cercare ciò che desideriamo. Il nostro darci da fare non segna la vittoria dell’impegno, della generosità, del doverismo. Il nostro muoverci indica la vittoria del desiderio. E di fronte a questa vittoria siamo disposti a qualunque sacrificio. Tanti martiri non hanno dato la vita per meno di questo.