C’è un approccio serio e scientifico all’illuminismo, che, anzitutto, ne riconosce le intrinseche differenze e pluralità (in realtà non è esistito un unico illuminismo, ma tante sue forme, anche molto diverse tra loro) e una lettura semplicistica, purtroppo ancora veicolata da gran parte dei manuali scolastici e recepita – in direzioni ideologiche opposte – dagli ambienti “progressisti” e da quelli più “conservatori”. I lavori accademici sono molti, ma, ciò nonostante, prevalgono ancora letture per contrapposizioni, mentre occorrerebbe la capacità di riconoscere e cogliere le opportune sfumature e differenziazioni. In fondo, la questione è sempre quella della “modernità” e di una sua lettura che si vuole ostinatamente per tesi e antitesi.



Come ricordava nei suoi corsi di filosofia della religione il compianto padre gesuita Giuseppe Pirola, “è antistorico e contradditorio regalare la modernità all’ateismo”, anzi, ancor di più, identificare modernità e ateismo. Il parallelo è dovuto, dato che della modernità l’illuminismo (nella sua pluralità sostanziale) rappresenta lo snodo fondamentale. Certo, viene subito alla mente la celeberrima definizione kantiana: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. (…) Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo”.



Spesso, però, si dimentica che Kant, cresciuto in una famiglia di profonda fede pietista, non ruppe mai realmente il suo rapporto interiore con il mondo protestante. “Dovetti spazzare via il sapere per far posto alla fede”, scrive nella seconda prefazione alla Critica della ragion pura. Non a caso, l’illuminismo nelle terre germanofone ricevette, da subito, anche una sua specifica denominazione, Aufklärung, per distinguerlo dai fenomeni paralleli – e più radicalmente antireligiosi – in terra francese. Così, per fare un esempio tra i tantissimi, Albrecht Beutel, professore a Münster, in un suo contributo su Aufklärung und Protestantismus (2011 e 2016), descrive la relazione tra i due termini come “tautologica”, in fondo, traducendo sul piano storico–filosofico il noto giudizio di Hegel sul cristianesimo protestante come essenza nella modernità nella sua Filosofia della storia.



Meno sistematico è stato sinora lo studio delle forme “cattoliche” dell’illuminismo. Anzi, spesso illuminismo e cattolicesimo sono stati, e sono, intesi come un ossimoro, in base a un fraintendimento privo di reali fondamenti storici, ma dovuto principalmente agli esiti più radicali dell’illuminismo sensistico francese e agli eccessi della Rivoluzione che da esso fu guidata.

A colmare questa lacuna provvede, con rara precisione storiografica e dovizia di riferimenti documentari, Ulrich Lehner, nel suo saggio Illuminismo cattolico. La storia dimenticata di un movimento globale, recentemente tradotto a cura di Francesca Santangelo e pubblicato dalle Edizioni Studium di Roma (2022). L’autore, docente nelle università statunitensi, oltre a The Catholic Enlightenment. The Forgotten History of a Global Movement, uscito nel 2016, era già noto per altri studi storici sulle complesse relazioni tra illuminismo e cattolicesimo.

Il suo volume ci introduce non solo all’esistenza di un illuminismo cattolico, ma, anche e soprattutto, alla sua pluralità di prospettive, sia sul piano delle differenziazioni geografiche (dal Portogallo alla penisola italiana, sino alle aree rimaste cattoliche dell’Europa centrale e orientale) che su quello delle grandi tematiche politiche ed esistenziali.

Si scopre così un’apertura culturale di cui – ribadiamolo – la vulgata scolastica si ostina a ignorare l’esistenza. C’è senz’altro la ripresa di autori non cattolici da parte di intellettuali cattolici, come Newton o Locke, nella lotta contro la superstizione e le sopravvivenze magico-pagane: “La Sorbona di Parigi era particolarmente famosa per questo tentativo di conciliazione tra illuminismo e cattolicesimo, perlomeno sino agli anni Cinquanta” del Settecento.

Ma c’è di più. C’è, tra i tanti esempi, un’apertura, profondamente evangelica, a una ridefinizione del ruolo della donna nella società moderna, inizialmente sconosciuta non solo al mondo coerentemente protestante, ma anche a pensatori come Diderot, come nel caso di figure di spicco in campo scientifico, nella fattispecie filosofico e fisico-matematico, come Laura Bassi, prima donna a ricevere una cattedra universitaria (a Bologna, di fisica sperimentale) o Maria Gaetana Agnesi, matematica, le cui opere furono tradotte in tedesco e in inglese. “Tale apertura era frutto dell’illuminismo italiano, che aveva richiamato in vita gli ideali rinascimentali in fatto di istruzione femminile”.

Si tratta, dunque, di un illuminismo di continuità e di riforma, non di rottura. Notissima, e su una linea a sua volta “di continuità” è l’opera di Ludovico Antonio Muratori, che nel volume di Lehner è definita di “illuminismo in stile tridentino”, in cui alla saldezza dei principi si univa il rigore del metodo, secondo “un approccio ‘sanamente critico’ che non puntava a nobilitare il passato”, in chiave apologetica o idealizzante, “ma presentava la storia in tutti i suoi spinosi e imbarazzanti dettagli”, accettando anche, di buon grado, il confronto con il pensiero dell’empirismo inglese o con i lavori di Leibnitz, Wolff e Bayle.

Non manca, in un testo che procede per temi e grandi aree geografiche, la distinzione, se pur solo accennata, tra le terre d’Italia legate al riformismo asburgico, dove l’illuminismo cattolico poté incidere in profondità sull’azione di governo, e quelle dove esso rimase un fenomeno intellettuale, con scarsa ricaduta sul piano della gestione del territorio e della vita quotidiana, come nei domini dei Savoia. Lo stesso Stato della Chiesa fu, comunque, interessato da questo movimento di pensiero, il cui culmine – almeno per la sua notorietà – si raggiunse con il “papa illuminista”, Benedetto XIV, la cui opera, in realtà, nella ricostruzione storia di Lehner appare ridimensionata a un avvio timidamente riformistico, con un successivo ripiegamento difensivo, se non repressivo.

Era questa, del resto, la parabola che lo spirito dei tempi andava percorrendo, con il prevalere, progressivo, delle istanze dell’illuminismo radicale, a fondamento sensistico e materialistico su quello riformistico e più moderato, caratteristico, appunto, dell’illuminismo cattolico.

In fondo, in uno sguardo retrospettivo, si tratta non solo della questione del rapporto tra cattolicesimo e modernità, ma, più profondamente, della necessità, intrinseca al cattolicesimo, di armonizzare fede e ragione: giusto per ribadire che l’illuminismo cattolico non fu – o non fu solo – la declinazione cattolica di una delle tante forme dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, ma, in molti autori e su molti temi (su cui l’opera di Lehner si sofferma con precisione sintetica) esso assunse tratti del tutto specifici e originali. Questo incontro tra modernità e cattolicesimo fu cioè caratterizzato da una reciprocità di stimoli e finalità, in una sorta di circolo, dapprima virtuoso, poi, tragicamente “vizioso”, quando le forme più radicali e intolleranti dell’illuminismo in nome della “democrazia” assunsero il potere assoluto in Francia, con la Rivoluzione, dilagando, poi, in tutta l’Europa continentale occidentale, al seguito delle armate napoleoniche.

La reazione fu uguale e contraria, come ricorda Lehner: “Non è necessario descrivere i bagni di sangue della Rivoluzione francese; ciò che importa è che questo scontento irritò i cattolici di tutto il mondo”, che cominciarono a guardare al Papato come all’unica istituzione di autentica resistenza al dispotismo. “Pio VII, più di ogni altro in Europa si era opposto al despota (…). Adesso i cattolici di tutto il mondo vedevano in lui, che veneravano come un martire vivente, una nuova autorità morale per la Chiesa”.

In tale contesto l’ultramontanismo trovò terreno fertile per le proprie tesi, con un’inedita ridefinizione del ruolo monarchico del Papato. Anche a questo faceva cenno l’allora card. Ratzinger, quando, scrivendo nel 2001 al patriarca Damaskinos, notava come nella Chiesa avesse avuto luogo “un salto qualitativo non nella teoria del primato, ma, piuttosto, nella sua applicazione”. L’esperienza dell’illuminismo cattolico, parafrasando una celebre espressione di Henri de Lubac, restava così “un’alba incompiuta”, che lasciava in eredità al secolo XX una serie di questioni irrisolte nel rapporto con la modernità, alla cui genesi aveva comunque dato un apporto determinante.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI