Il virus, tra le altre, ci ha imposto una riflessione amara sul valore della vecchiaia e sul suo ruolo sociale. La strage di persone anziane ci ha come rimesso davanti alla faccia il nostro stesso volto rugoso, la fotografia in bianco e nero del nostro destino. E, ovviamente, ci siamo guardati bene del penetrare fino in fondo quei ritratti, ma abbiamo incanalato lo sguardo nel prisma delle letture emotive. E che cos’è questa emotività se non la percezione e l’interpretazione edulcorata della realtà che noi stessi abbiamo plasmato? Insomma è la lacrima retorica della nostra cattiva coscienza.



Si, perché mai nessuna società è stata più indifferente nei confronti della vecchiaia e insofferente nei confronti dei vecchi, quanto la nostra. Ammaliati dal dinamismo, dalla bellezza, dal salutismo, dal mito dell’eterna giovinezza, quella spina nel fianco l’abbiamo innanzitutto negata, al più considerata come un accidente improvvido. Espulsi da ogni possibile costruzione storica, senza cittadinanza nel recinto di un possibile futuro, i vecchi sono stati rinchiusi in una sorta di più o meno dorata stagione dell’attesa. Insomma, l’immagine di Enea che si carica sulle spalle il vecchio padre Anchise e parte alla fondazione di una nuova città, sembra lontana anni luce dal nostro presente.



Ora, onorare i nostri vecchi, non significa affatto piagnucolare momentaneamente e di fronte ad un’immane tragedia, significa invece riconoscerne lo statuto originario nel processo di costruzione del presente e del futuro. Non perché essi abbiano ragione. Ma perché ne sono la ragione, in quanto futuro compiuto, storicizzato.

Il pirata Long John Silver, trasmigrato dalla giovinezza dell’Isola del Tesoro alla maturità della sua “Vera storia” uscita dalle mani di Bjorn Larsson, citando Defoe e riflettendo sulla propria vecchiaia in corrispondenza con il suo giovane amico Jim Hawkins, scrive: “ Ma la morte, in un certo senso, è il culmine della vita, sia che giunga troppo presto, sia al momento giusto, se ce n’è uno. Non intendo l’apice della fortuna, ma il punto dal quale tutta la propria vita appare nella sua vera luce. È allora che si deve giudicare, una volta per tutte, se è stata degna di essere vissuta. Non siete d’accordo con me? Non trovate che la morte sia la misura della vita?” E se i vecchi non sono un metro di misura per tracciare solchi nuovi, neppure possono essere pianti, ma al più – appunto – piagnucolati.



Piangere un vecchio è cosa che ha un ardore civile straordinario e nemmeno richiede lacrime facili. Ma per piangere un vecchio bisogna averlo onorato. Non basta averlo amato. Bisogna, insomma, di un vecchio, saper cogliere e trattenere la follia celebrata da Erasmo: “Così il vecchio delira grazie a me. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dalle preoccupazioni penose che tormentano il saggio; quando si tratta di bere, è un allegro compagno, non avverte il tedio della vita, che l’età più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto, ritorna alle tre famose lettere, grande infelicità se fosse in senno. Invece grazie a me, è felice, simpatico agli amici, piacevole compagno di baldorie. Anche in Omero dalla bocca di Nestore scorrono discorsi più dolci del miele, mentre amare sono le parole di Achille” (Elogio della follia).

Si palesa insomma quel tema centrale e controverso in una società della velocità, delle competenze e dell’efficienza, che potremmo chiamare dell’inutilità, o, per dirla con Turgenev, della superfluità; tema che conduce dritti nel cuore stesso dell’idea di libertà. Insomma, una società che disprezza o deride ciò che è inutile, è una società incapace di guardare in faccia alla propria morte e dunque è prossima a morire.

La retorica vigente fa del vecchio il portatore dei ricordi, della saggezza, di un bagaglio di esperienze nei fatti inutilizzabili in una società come la nostra che macina ed espelle, e soprattutto esorcizza ogni forma di malattia e la morte stessa con un vitalismo inebetito, un salutismo patologico e perfino una religiosità molle e sentimentale. Perfino il gretismo ecologico, con il suo slogan scentrato (“ci avete rubato il futuro”) riversa sui vecchi un’accusa sbagliata e per certi versi non pertinente. Perché il futuro non è cosa di loro competenza. Semmai ciò che i vecchi hanno rubato ai giovani è la realtà. Questo è il loro peccato. E senza realtà, del mondo e di se stessi, non si sa proprio che farsene.

È forse per questo che i vecchi, nel momento in cui si accantonano e non hanno più nulla da perdere, sono così contenti quando guardano le pietre. È il refolo della coscienza. La consapevolezza d’aver loro, per primi, tolto ai figli la terra sotto i piedi. E senza terra non solo non sai camminare, ma nemmeno hai un posto dove stare per sempre. La follia del vecchio è tutta in questa sua cocciuta aderenza al suolo, al suo resistere, abbarbicato al sasso, ad ogni lusinga, ad ogni illusione, ad ogni trasvolata onirica. Per questo il vecchio, nell’incedere del mondo, nello stupore generalizzato, nella frenetica ansia di procedere, non nega “niente di niente” ma sta “solo soprapensiero, sempre considerando la pietra ai suoi piedi” (E. Vittorini, Le città del mondo).

Oh, certo, quel che han fatto, l’han fatto a fin di bene, per eccesso d’amore, per risparmiare al mondo nuovo i dolori lancinanti che avevano storpiato il mondo antico. Il risultato di questa pedagogia dell’amorevole negligenza, è che son rimasti soli e inascoltati a interpretare ed inverare la realtà. Ma non basta a chi ha imparato, fin dalla culla, a farne senza, a rivestirla, a mascherarla. Il sasso, nel terreno molle dell’esistenza, viene accantonato al margine. Nessuno più vi inciampa. Nessuno più sa che farsene e nemmeno è buono per costruire il muro di una casa solida. Inutile sasso è il nostro vecchio. Eppure “le pietre sono il libro del mondo. Sagge parole di quando il mondo, la realtà, viveva la sua bella vita e tutti la potevano vedere e partecipare. È così che “bisnonno Redentore obbediva a una voce che gli diceva: le pietre sono il libro del mondo. E lui domandava ai sensali se ci fosse un campo dove accarezzare ciottoli di fiume, schegge di roccia: ‘Montagne o colline non importa, voglio vedere le ossa di questa terra’. Era convinto che nelle pietre si conservasse il mistero di ogni vita nascente, perché erano state le prime a essere create e sapevano tutto di Dio, nel loro cuore durava la forza dell’inizio, il gran colpescuro sparato al tempo dei tempi, nel buio più nero. Bastava accarezzarle, seguire le venature per conoscere l’acqua, la grandine, la neve, i secoli che ci erano passati sopra” (G. Lupo, L’albero di stanze).

Forse sta qui il segreto per cui i vecchi amano la zolla, quella soda, da dissodare. Mica facile e preparata. È il destino scelto da Laerte mentre attende il ritorno del figlio alla pietrosa Itaca. È la strada indicata dal saggio Cicerone a chi intende invecchiare saggiamente. E forse, perfino i comici pensionati radunati in cerchio intorno ad una buca, cercano nel profondo un che d’infinito.

Ma il segreto di bisnonno Redentore sta altrove. Nella capacità di trasformare le pietre in pane. Questo è il passaggio che si è interrotto nella trasmigrazione generazionale. Per cui le pietre sono rimaste pietre, terreno fertilissimo per ogni germogliazione della retorica, la grande nemica della poesia.

“Per essere applaudito, l’attore non ha bisogno di recitare tutta la commedia. Basta che sia valido nella sua scena” (Cicerone, De senectute). Mi pare che la questione del filo interrotto stia tutta in questa considerazione totalmente disattesa. Questione di relatività esistenziale che contiene un assoluto. Come a dire che il tutto sta in ogni particolare. Questo è il grande messaggio dell’anziano che ha terminato di recitare la sua parte e si gode l’applauso. Ma ci dev’essere un pubblico che batta le mani, ne riconosca il ruolo, abbia lo sguardo sull’intera rappresentazione. Nel momento in cui, invece, ciascuno ritiene di essere attore, commediografo, commedia e suggeritore, regista e pubblico, beh, di speranze ne restano davvero poche. Terminata la parte, si esce di scena e ci si perde, convinti d’altronde che la commedia sia finita o, al più, per nulla interessante.

Su questo palcoscenico alterato dall’epidemia, ci siamo accorti che ci mancano i funerali. Che non abbiamo potuto salutare i nostri vecchi. Ma anche in questo caso la gelatina del sentimento cambia le carte in tavola. Perché, bisogna pur dirlo, la nostra ossessione analgesica e la nostra paura che la coscienza ci renda troppo presenti – protagonisti – dell’estremo passo, ha ridotto quello che Jacques Le Goff descriveva come il cerimoniale del commiato, ad un generico saluto al simulacro dell’esistente. Perché nella morte, non siamo noi a salutare, ma chi è in procinto di partire. È dunque questa morte che abbiamo azzittito che adesso vorremmo riabilitare? E cosa ci manca del nostro vecchio: la sua parola o la sua ombra? Inutile in presenza, inquietante in assenza.

Da questa nevrosi sarà difficile uscire se non con gli strumenti della facile retorica e del gratuito sentimento, finché al vecchio non venga restituito il giusto posto di pietra angolare, strumento d’inciampo di fronte alle baldanze della facile giovinezza. E soprattutto finché non rifletteremo a lungo e in profondità su ciò che di più inquietante un vecchio può dirci (anche se noi pensiamo ad altro): ovvero – e sono ancora parole di Cicerone – “E anche se un dio molto generosamente mi offrisse di ridiventare un bimbo che vagisce nella culla, di certo rifiuterei di essere ricondotto sulla linea di partenza dopo aver percorso, per così dire, tutta la linea”.

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