Ci sono tanti modi di vedere il mare. Il più comune è lo sguardo da terra. È  sguardo di distanza, di distacco, di sogno. Tra la battigia e la linea dell’orizzonte vi è tutto il mondo delle possibilità, ciò che vorremmo essere e non siamo, ciò che siamo e potremmo essere. E dondoliamo con il ritmo delle onde. In fondo è un punto di vista falso, illusorio. Lo sguardo da terra riduce il mare ad oggetto di consumo. Com’è il leone in gabbia dello zoo, cui ci avviciniamo insolenti confidando nella tenuta delle sbarre di ferro. È la stessa protervia del bagnante che sfida l’ignoto laddove può toccare con i piedi la certezza della nostra terrestrità. Insomma, è un’esperienza senza paura, dunque sostanzialmente sterile. Apparentemente a questo mare abbiamo appiccicato il linguaggio della festa.



C’è poi lo sguardo del mare che vien da sopra il mare. È lo sguardo del navigatore. Dura luce negli occhi che non permette sfarfallii della mente ma ha solo due punti focali: la prua e il segnavento. E guardando in alto e in avanti, come fa l’essere autenticamente religioso, l’uomo che punta i piedi sul mare e ne sente sotto i palmi il movimento brusco e capriccioso, sperimenta del mare la natura antropologica e, dunque, intrinsecamente letteraria. A questo mare che si fa intrinsecamente verso, metrica e racconto, è invece propria l’esperienza del lutto. Come il leone il mare è crudele, di una crudeltà naturale, democratica, che solo una mentalità circense può rendere idoneo alla risata e allo spettacolo.



“Quale tristezza vedere ogni sera il sole, questa gioia del mondo e padre della vita intera, offuscarsi, sprofondare nei flutti. È il lutto quotidiano del mondo, e specialmente dell’Occidente”. Il mare di Jules Michelet è un’opera da leggere e rileggere. Innanzitutto perché – come annota Antonio Tabucchi – è un libro profondamente triste. E “niente è più triste dell’ottimismo, quando il futuro lo deride”.

È la tristezza congenita delle donne e dei forti, “quella delle anime troppo sensibili che piangono se stesse e quella dei cuori disinteressati, che accettano per sé la sorte e benedicono sempre la natura, ma sentono i mali del mondo e traggono dalla tristezza la forza per agire o per cercare”. Insomma il mare produce una malinconia eroica. Molto ha a che fare con la sua natura femminile, come bene esprime la lingua francese (la mer). Simile nel suo essere ultra-natura e ultra-sesso, placenta, liquido amniotico, umidità d’amore ricco di sostanze nutrienti. È il contrario della sterilità, dell’astratta perfezione. In quel liquido – così uguale al liquido vaginale – vivono e vagolano esseri sconosciuti, creativi, infettivi di un’infezione salutare e insieme intrinsecamente triste. In tale fluidità la donna si impone come la grande promotrice dell’armonia, della regolarità, nonostante la sua apparente natura “capricciosa”. Si tratta di comprendere e di immergersi in questo “flusso vitale che forma le correnti del mare e trasforma l’acqua salata in acqua dolce” e poi in vapore per tornare ancora allo stato originario. È forse proprio questa circolarità, accompagnata da un intimo ritmo, che caratterizza il femminile. E radica qui, in questo vero e sano animo femminile, la sua radicale e insondabile crudeltà. “Sulla sua faccia non c’era corruccio, non una ruga, non un’increspatura” annota Joseph Conrad. “Aperto a tutti e fedele a nessuno [il mare] esercita il suo fascino per la rovina dei migliori. Non è bene amarlo. Esso non conosce vincolo della parola data, non partecipazione alla sventura, non lunga comunione d’intenti, non lunga devozione. La promessa che offre perpetuamente è grandissima; ma l’unico segreto per ottenerne il possesso si chiama forza, forza – la forza gelosa, insonne dell’uomo che sta a guardia di un agognato tesoro a porte chiuse” (Lo specchio del mare).



È, dunque, quella del mare una crudeltà autenticamente educatrice esattamente come ogni vera donna è capace di promuovere ogni vero uomo. Si tratta di una saggezza naturale capace di cavare da ogni anima tormentata, com’è l’anima dell’uomo, una non illusoria felicità.

Bjorn Larsson in La saggezza del mare ripercorre in chiave autobiografica e con piglio filosofico l’itinerario che dall’irrequietezza porta alla felicità. Si tratta di una rotta ben disegnata sulla mappa della vita, fatta di scelte, di decisioni, di soste, di partenze e di ritorni di solitudini e di incontri, di paure e di eccitazioni. Sana pedagogia, educazione sentimentale, riti di passaggio, solennità: il mare per chi lo naviga davvero rispettandolo come si rispetta l’imponderabile logica di un dio, è davvero l’unico spazio in cui è possibile percepire cosa sia la libertà in quanto spazio infinito dell’anima e, per uno spirito religioso, esperienza di una demolizione costruttrice che pone allo zenit dell’inabilità e, dunque, dell’affidamento. Perché il mare non si può comprare, non si può blandire e nemmeno affascinare. Il mare è una mano possente che può innalzare o stritolare. E nemmeno basta avere la barca più bella e costosa, tecnologica e performante, per farlo fesso. Insomma, siamo nel cuore di un’esperienza spirituale.

Scrive Michelet: “Il mare conduce molti uomini alla follia. Livingston, di ritorno dall’Africa, aveva condotto con sé un uomo intelligente e coraggioso, capace di sfidare i leoni. Costui non aveva mai visto il mare. Quando salì sulla nave ed ebbe contemporaneamente la duplice sorpresa, e dell’elemento temibile e di tutte le arti a lui sconosciute, fu un colpo troppo forte per la sua mente. Delirò; per quanto si fosse cercato di impedirglielo, trovò il modo di scappare, e si gettò a occhi chiusi nei flutti che insieme lo atterrivano e lo attraevano. D’altra parte, il mare lega così saldamente a sé gli uomini che gli hanno affidato per lungo tempo il loro destino e hanno vissuto in intimità con lui, ch’essi non possono più lasciarlo” (Il mare).

La natura del mare, così come l’intima natura di una donna e – ovviamente – di Dio, è natura intimamente tragica. Per questo il mare è l’origine di ogni possibile letteratura. Poiché ogni esperienza marinara è caratterizzata da una ineluttabile solitudine (non vi è un pubblico che possa osservare, criticare o ammirare) essa è semplicemente narrabile. E poiché il mare costituisce e trasforma gli animi, ogni narrativa di mare è narrativa dell’umano. Da Omero in poi il mare diviene una sorta di specchio convesso che riflette l’insondabile. La profondità dell’abisso sembra contenere tutti gli abissi dell’umanità. Da Ulisse a Long John Silver, non v’è uomo terrestre che non abbia individuato nell’animo salato e bruciato dal sole e dal vento, la forza quanto meno metaforica di un esistere a tutto tondo, onnicomprensivo di ogni possibile linguaggio esistenziale.

Basterebbe l’Odissea, certo. Ma chi vuole avventurarsi tra i meandri delle nuove sottigliezze antropologiche e morali di un’umanità sballottata tra i flutti della modernità, non può non passare dall’Isola del tesoro di Stevenson che ogni essere civile dovrebbe leggere prima dei suoi vent’anni e rileggere dopo i sessanta. Con un’appendice fondamentale: quella Vera storia del pirata Long John Silver che certo è il capolavoro di Bjorn Larsson. Perché il banale e tremendo mistero di ogni letteratura e forse di ogni vita che intenda sopravvivere al silenzio (se non giungere alla resurrezione) sta tutto qui, nelle parole finali di Long John indirizzate a John Hawkins: “So di non essere stato un chierichetto, ai tuoi occhi, ma dopo tutto sono stato una specie di essere umano, e un buon compagno di bordo. (…) Ti chiedo di non porre fine alla sola esistenza che John Silver abbia mai avuto. Mettila al sicuro. Un giorno, forse, qualcuno avrà bisogno di sapere che è davvero esistito e che, dopo tutto, era una specie di essere umano. In tal caso, non sarà vissuto invano, come tanti altri, che non sono serviti a nulla. Questo è il mio ultimo desiderio”. Forse la questione sta tutta qui: tentare di essere una specie di essere umano e lasciare dietro di sé una scia di ricordi.

Ma per far questo bisogna vivere come se si dovesse morire da un momento all’altro. Perché è la morte a dettare il ritmo delle onde e sotto l’apparente bonaccia essa sonnecchia guardando i corpi sospesi di chi ritiene di vivere eternamente. Pia illusione, come quella di poter galleggiare sulle onde in un tempo infinito. Pia illusione di chi non conosce il mare, di chi lo vive come un luna park e guardandolo dall’alto in basso, s’illude di possederlo, di possedere tutto, in primis, paradosso dei paradossi, una bella barca. È così che si comincia a misurare la vita in metri o in piedi, in cavalli o in conti correnti. Ma il mare non si fa misurare, tanto meno con questi sistemi metrici.

Larsson immagina il suo John Silver terminare la vita suicida. È per la verità una naturale conseguenza dell’esistenza piratesca, vissuta secondo le sette scienze marinare: bestemmiare, bere, rubare, andare a puttane, fare a botte, mentire e calunniare. A ciò si devono aggiungere alcuni corollari di non poco conto: innanzitutto quella sorta di manicheismo salato che impone al marinaio la semplice scelta tra il dovere e l’ammutinamento; in secondo luogo la regola decisiva che si possono raccontar balle al mondo intero, meno che a se stessi; che occorre vivere ad ogni costo e che la morte è il culmine della vita; infine – e forse soprattutto – John Silver è certo di non credere in Dio ed è pronto a giurarlo sulla Bibbia.

Ecco cos’è “una specie di essere umano” che il mare disvela. Come una specie di essere umano dovrebbe essere ciascuno, ridotto all’osso, con la sua morale d’alga, che tutto spacca tranne la propria anima.

Tutto sto po’ po’ di vita radica in una sola certezza: di essere per un’esistenza intera il parente più prossimo del proprio cadavere – come annota ironicamente Long John poco prima di morire in un sintetico esame di coscienza.

Associare il mare alla morte è fin troppo facile e banale. La metafora diviene in questo caso irritante. Semmai, per comprendere appieno la metafora del mare totale, occorre seguire un poeta come Paul Valéry nelle sue Ispirazioni mediterranee. “Uno sguardo sul mare è uno sguardo sul possibile… Ma uno sguardo sul possibile se ancora non è filosofia, è indubitabilmente un germe di filosofia, filosofia allo stato nascente”. Insomma, il mare è innanzitutto criterio di conoscenza, innesco trasparente di ogni sapere, iniziazione “al sapere universale” che genera “un desiderio più vasto d’ogni altro” di penetrare il segreto intimo del rapporto tra le cose. Così, noi che siamo uomini di mondo, scopriamo che il mondo – fin nel significato della parola che lo definisce – altro non è che ornamento. L’essenziale sta altrove. Ma dove? Chi passa intere giornate senza vedere terra, sa che vi sono due elementi che costituiscono l’unico paesaggio possibile: il cielo e la luce. Sono elementi che, uniti all’acqua che sostiene l’esistente, “hanno suggerito o imposto agli spiriti contemplativi quelle nozioni d’infinito, di profondità, di conoscenza, d’universo, che sono sempre soggetti di speculazione metafisica o fisica, e di cui vedo l’origine semplicissima nella presenza d’una luce, d’una distesa, d’una mobilità estreme, nell’impressione costante di maestà e di onnipotenza, e talvolta di capriccio superiore, di collera sublime, di disordine degli elementi che si concluderà sempre con il trionfo della luce e della pace”.

È una nozione riassuntiva di Dio, quasi una trinità degli elementi che spolvera ogni perbenismo congenito che fa di Dio un’idea di Dio. Forse è per questo che è così dolce naufragare in questo mare, o, come dice Joyce nel suo Ulisse, “Morte in mare, la più dolce delle morti note all’uomo”.