Osip Mandel’štam è un esponente di quell’epoca straordinaria della poesia russa che fu l’inizio del Novecento. Meno conosciuto di altri autori, come Majakovskij o Pasternak, Blok o Esenin, oppure donne straordinarie come l’Achmatova e la Cvetaeva, fu più raffinato e aristocratico; eppure la sua poesia è sempre più influente e l’ascolto che riceve nei paesi di tutto il mondo in costante crescita.
Condivise il tragico destino della sua generazione, quando l’urto con la dittatura bolscevica divenne insostenibile: Majakovskij, Esenin e Cvetaeva suicidi; Pasternak e Achmatova praticamente reclusi (Pasternak non poté neppure ritirare il Premio Nobel); molti esiliati, come più tardi accadde a Brodskij; Gumilev fucilato e lo stesso Mandel’štam morto in Siberia sulla tradotta ferroviaria che lo conduceva al campo di concentramento.
Stalin lo teneva d’occhio da tempo, telefonava anche agli altri per chiedere che tipo fosse: famosa una chiamata che Pasternak ricevette dal dittatore, in cui gli chiedeva se fosse un grande poeta. La risposta affermativa del collega non lo salvò. Non c’è mai stata, forse, in Russia una generazione di scrittori che non abbia dovuto fare i conti con la violenza del potere. Lo stesso Dostoevskij, contro cui si è levata la dirigenza dell’Università della Bicocca a Milano impedendone di fatto una serie di incontri programmati a causa della guerra, fu portato davanti a un plotone di esecuzione e solo all’ultimo secondo, a fucili già spianati, arrivò il messo dello zar che impugnava la grazia. Chi ha impedito che in un’università italiana si parlasse di lui, forse non conosce queste cose.
E forse si può chiedere ai poeti, almeno a questi, qualche spiegazione sulla guerra, sulla Russia, sull’Europa. Mandel’štam scrisse nel 1914 una poesia intitolata proprio Europa, contenuta nel volume La pietra. Era un poeta che non si tirava indietro di fronte alla storia: dedicò persino una poesia a un’enciclica di Benedetto XV, il pontefice dell’inascoltato appello per la pace contro la Prima guerra mondiale, dal Papa definita “inutile strage”. La poesia di Mandel’štam sull’Europa, definita “terra d’origine di conquistatori”, dopo una gustosa descrizione della sua geografia (“Come granchio mediterraneo o stella marina/ fu gettato nell’acqua l’estremo continente”) dice che come conseguenza delle guerre imminenti, a cent’anni da quelle di Napoleone, “davanti ai miei occhi muta la tua mappa misteriosa”.
Sembra esserci una costanza nelle guerre che vedono coinvolte la Russia, quella di cui ci avvisa il poeta: dopo di esse, la storia, e neppure la geografia, sarà più quella di prima, soprattutto in Europa. Ma in realtà la metafora poetica vale per tutte le guerre. Contrariamente a quello che pensiamo (o speriamo) noi, questi autori ci dicono che la guerra stravolge i destini dei singoli e delle nazioni, ne converte il cammino, ne devia la direzione storica e umana.
È il tema di quello sterminato romanzo di Tolstoj che è Guerra e pace, storia di destini individuali e mondiali, tra i quali quello di Napoleone, cambiati irrimediabilmente dalla guerra. E infatti la storia ci insegna che proprio in Russia le sorti di Napoleone cambiarono radicalmente. La letteratura russa porta costantemente questa coscienza, al contrario di ciò che dicono i nostri autori, che spesso parlano della guerra come una farsa, una questione di “donne, cavallier, arme e amori”, per dirla con l’Ariosto.
Mandel’štam disse anche che la Russia è l’unico paese al mondo in cui si può essere condannati a morte per una poesia. Forse non è così, certamente anche in altri paesi i poeti rischiano a esprimere il loro pensiero e i loro sentimenti più profondi e veri, se questi contraddicono il potere.
Un’altra poetessa russa, Olga Sedakova, da molti considerata l’erede di Anna Achmatova e, come lei, perseguitata dal potere sovietico, sta coraggiosamente denunciando il clima da dittatura e propaganda che ha preparato, all’interno della Russia, la guerra. E ancora una volta i poeti, sulla scia di Mandel’štam, ci avvisano che la guerra “davanti ai miei occhi muta la tua mappa misteriosa”. Insomma, questa guerra non lascerà le cose come prima. Viene da dire: indipendentemente da chi la vincerà. Ammettiamo, ad esempio, che Putin raggiunga il suo scopo, cioè la conquista dell’Ucraina. E poi? Come governerà il solco di odio che la guerra sta tracciando? E quanto durerà la sua presa?
Ma Mandel’štam nella sua poesia parla di Europa. Che ne è di essa, cioè di noi? Cosa ne sarà dopo la guerra, dopo ciò che è stato fatto e non è stato fatto? L’indicazione del poeta è chiara: questa guerra è una cosa totalmente nuova. Anche certe categorie che si continuano straccamente ad usare, come nazista o comunista (Zelensky sarebbe il primo, Putin l’altro, a seconda però di chi sta parlando, in questa caterva di opinioni vuote e false da cui siamo inondati), sarebbe meglio lasciarle nel passato.
Come i poeti sanno benissimo, in Russia oriente e occidente si incontrano, senza pacificarsi mai. La storia di quel Paese è la storia dell’oscillazione dell’ago della bilancia che si muove continuamente da est a ovest e viceversa. Questa guerra è il segnale che ora la lancetta russa è decisamente orientata a oriente, e che noi, l’occidente, stiamo giocando col fuoco usando panni intrisi di combustibile: l’oriente infatti non è solo una crescente potenza economica, ma è anche identità profonda, impermeabilità alla democrazia, forza spirituale misteriosa e persino incomprensibile per noi. Occorrerà mettere sul piatto tutte queste varianti, persino di fronte a uno sguardo alla guerra che non può essere risolto con le nostre due miserabili categorie.
Abbiamo bisogno dei poeti. Abbiamo bisogno di Mandel’štam.
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