Lo scrittore statunitense Cormac McCarthy si è spento il 13 giugno nella sua casa di Santa Fe, New Messico, non lontano da quella frontiera che è la scenografia preferita delle sue opere. Terzo di sei figli di una famiglia irlandese, era nato nel 1933. Frequentò irregolarmente l’università senza laurearsi e nel 1953 fu soldato per quattro anni. In una rara intervista (non amava le domande dei giornalisti e ne è stato sempre alla larga) Oprah Winfrey gli chiese: “In certi periodi lei era molto povero, assolutamente senza un soldo; i giornalisti le telefonavano dicendo che le avrebbero pagato 2mila dollari per un’intervista, ma lei si rifiutava rispondendo che tutto ciò che conosceva lo aveva già messo per iscritto…”. Curiosa la risposta: “Be’ ero molto occupato. Avevo altre cose da fare”.
Che l’America sia tuttora, nonostante la sua crisi dichiarata pienamente dai libri di McCarthy, una grande cultura, è dimostrato dalla possibilità che i suoi lavori abbiano trovato un pubblico sempre più vasto, fino a raggiungere tutto il mondo: nel Paese della spietata legge del mercato dove anche i romanzi sono prodotti più come merce di consumo che come opere di conoscenza, esiste una buona percentuale di persone che ha atteso le sue storie scritte con uno stile asciutto, senza strizzate d’occhio, gigionerie di trama né lieto-fine di hollywoodiana fattura, che rincorrono temi duri, ambientazioni indocili, profezie terribili.
Anche in Italia da diversi anni i suoi romanzi registrano un vasto gradimento e una solida ammirazione, fino all’ultimo libro uscito quest’anno, Il passeggero, che fa coppia con un altro, Stella maris, già pubblicato in patria e annunciato da noi per l’autunno (a meno che l’editore non affretti la tabella di marcia, ora che l’autore non c’è più). Le storie di McCarthy narrano il ventre profondo e duro dell’America del deserto, al confine col Messico, vicende di gente violenta, tribù di spacciatori, serial killer, padri ruvidi e figli all’avventura: riemerge più frequente di ogni altro elemento la violenza originaria della frontiera, ciò che rimane dell’epopea dei pionieri che hanno lottato e ucciso per strappare la terra alla natura e ai nativi ed ora che ce l’hanno fatta sono rimasti con la loro rabbia e le loro armi senza più nulla da strappare.
I lettori colti e i colleghi di McCarthy lo accostano spesso a Hemigway, a Faulkner, a Steinbeck, insomma al grande filone novecentesco della narrativa americana, della quale sembra essere all’altezza: ci penserà poi il tempo, il critico letterario più abile a smascherare eventuali talenti gonfiati, a confermare o meno il giudizio. Certo a McCarthy occorrerebbe affiancare almeno quel geniaccio americano di Flannery O’Connor, che ambienta nei territori del Sud, equivalenti al west mccarthiano, simili situazioni di guerra e violenza che non mancano mai di essere attraversate dal filo quasi invisibile di una grazia misteriosa.
La trilogia della frontiera, Figlio di Dio, Suttree, Meridiano di sangue formano il primo tempo della sua scrittura, mentre le opere più mature, che gli hanno dato la fama definitiva e spesso la consacrazione del cinema sono Non è un paese per vecchi, La strada e il dialogo teatrale Sunset limited, per citare i più conosciuti. Si tratta spessissimo di storie che partono da una mancanza, una frattura, in cui nella realtà accade un punto di rottura che obbliga a un viaggio, un movimento dei protagonisti. In Oltre il confine un ragazzo attraversa la frontiera per dare la caccia a una lupa, ma quando la cattura anziché ucciderla decide di riportarla a casa. Il buio fuori è la storia di un bambino partorito abbandonato, cercato poi a lungo dalla madre ragazza; vi si affrontano la crudeltà a tratti gratuita degli uomini e la grazia della natura, due mondi che sembrano essere stati pensati da due opposti creatori. La strada racconta il viaggio di un padre che protegge il figlio in un mondo reduce da una misteriosa, non detta catastrofe, i cui abitanti sono regrediti alla fase primitiva. Il celebre Non è un paese per vecchi narra di una scia di sangue lunghissima, con un serial killer che insegue un uomo che ha trovato una valigia di denaro degli spacciatori messicani, un poliziotto in crisi, una società degradata, ingiusta, violenta. Non a caso i fratelli Coen ne hanno tratto un film che, in quanto ad atmosfere splatter e tensione, sta all’altezza di Tarantino.
Il clima generale, la spia segreta, la denuncia nascosta di McCarthy sembra essere quella dell’assenza di un destino, situazione di cui l’America potrebbe essere metafora del mondo. Si legge in Non è un paese per vecchi: “La gente dice che è stato il Vietnam a mettere in ginocchio questo paese. Ma io non ci ho mai creduto. Questo paese era già messo male. Il Vietnam è stato solo la ciliegina sulla torta. Non avevamo niente da dare a quei ragazzi da portarsi dietro. In pratica se li mandavamo senza fucili era la stessa cosa. Non si può andare in guerra a quel modo. Non si può andare in guerra senza Dio”. Questa forse la domanda sottesa alle storie di Cormac McCarthy: cosa abbiamo da dare ai nostri ragazzi da portarsi dietro?
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