Capita un bel giorno, a un docente di letteratura italiana in un’università americana, di ricevere un pacchetto accompagnato da una lettera, con il dattiloscritto della traduzione inglese completa del grande romanzo (sì, è ancora un grande romanzo) Il piacere, di Gabriele d’Annunzio.
La traduzione è opera di una signora italiano-americana, chiaramente dotata di buona cultura (com’è provato dalla natura stessa del progetto, e dal fatto che la resa del testo italiano è corretta), ma lontana dal mondo accademico così come da quello dell’intellighenzia militante, e dagli ambienti editoriali; infatti la traduttrice non ha nemmeno tentato di rendere in inglese lo stile del testo originario.
Il prof. dunque risponde con un messaggio diplomaticamente evasivo, perché questo grosso lavoro appare essenzialmente inutilizzabile; e la cosa finisce lì. Ma nei giorni seguenti lo studioso che si annida dentro il professore non gli permette di essere completamente soddisfatto. Egli sente che qui è emerso un nodo complesso di pensieri ed emozioni, e che definizioni come traduzione “di servizio” o traduzione “dilettantesca” sono inadeguate: il primo termine non ha senso, perché quella persona non menziona progetti di pubblicazione e nemmeno richiede esplicitamente una valutazione; e il secondo ha un tono di degnazione abbastanza antipatico. Sente insomma che, per capire fenomeni di questo tipo, occorre un pensiero (come dire?) umile.
Egli comprende infine che questa è una traduzione di desiderio. Desiderio di che? L’esperienza dell’alta letteratura (si tratti di poesia, o di prosa di alta qualità; si tratti dell’esperienza dell’autore o del traduttore o del “semplice” lettore) viene da un luogo non definito, passa attraverso un luogo non definito, e va verso un luogo non definito; e tuttavia questa esperienza cambia qualcosa dentro colui/colei che la compie. Ecco il desiderio: che è quello di giungere a una trasformazione, a una grande o piccola metamorfosi.
Chiunque trasferisce un testo da una lingua in un’altra entra in un duplice processo – trasformazione di sé stesso/a, insieme con la sua trasformazione del testo – che precede il procedimento razionale della comunicazione e diffusione di quello scritto, e ne resta alla base. È possibile anzi necessario – per chi si dedichi seriamente alla scrittura, alla traduzione, alla lettura – incanalare queste esperienze di metamorfosi in una qualche forma di esercizio sistematico. E uno degli strumenti più efficaci di questo esercizio sono i laboratori (o seminari, o workshops) di traduzione e di scrittura cosiddetta creativa ormai diffusissimi in tutti gli ambienti, universitari e non. Ma anche così il percorso della metamorfosi resta in larga misura sotterraneo e imprevedibile. Un esempio.
È appena terminata, in un seminario di traduzione, la sessione di alcune ore dove tutto il gruppo ha collaborato intensamente alla revisione di una traduzione italiana, pubblicata molti anni prima e ormai invecchiata, di un famoso racconto fantastico americano di primo Ottocento – Rip Van Winkle (1819) di Washington Irving – la cui azione è collocata nella ridente Vallata del Fiume Hudson, lungo il bordo orientale dello Stato di New York. Tutti sono soddisfatti del minuzioso lavoro fatto; tutti, tranne una studentessa seduta in un angolo (in ogni aula al mondo c’è sempre uno studente seduto in un angolo, restìo a intervenire ma desideroso di farlo).
L’insegnante si rende conto che non è possibile ignorare questo silenzio critico; e chiede alla studentessa di indicare il punto o punti che non la soddisfano, e su cui il gruppo è pronto a rimettersi al lavoro. Ma la giovane tace; a un certo punto però dice timidamente: “Ecco, vedete: io, in quella valle, ci sono nata e cresciuta”, e non aggiunge altro.
Il prof. si guarda bene dal reagire ironicamente, con frasi come: “È tutto qui quel che hai da dire?” o: “E questo che c’entra?”, perché il lavoro di scrittura/lettura è delicato, e ci vuole umiltà; ma il seminario si chiude in una certa atmosfera di perplessità. Però quel lieve intoppo, quella smagliatura apparentemente ingenua nel discorso, ha rivelato che il tentativo di tradurre un testo letterariamente suggestivo causa una piccola metamorfosi, dentro di noi e fuori di noi: nella nostra percezione del mondo, del paesaggio (non solo naturale, ma anche culturale e sociale) dietro al testo.
Si tratta, in fondo, del processo inverso rispetto a quello che è a volte descritto da quei lettori e lettrici che dicono: “Non ci sono mai stato, in quei posti, ma adesso mi pare di averli proprio visti con i miei occhi” (reazione che i critici accademici spesso scartano come un’ingenuità). In entrambi i casi, si tratta di una nostalgia di visione diretta: la nostalgia di luoghi non veduti, oppure la nostalgia di qualcosa, nei luoghi noti al lettore, che in qualche modo – difficile se non impossibile da definire razionalisticamente – non sembra essere “passato” nel testo tradotto.
Precisazione: qui non si sostiene affatto che una conoscenza diretta dei luoghi descritti dall’autore sia necessaria o sufficiente per produrre una buona traduzione; si constata soltanto l’esistenza di tutta un’aria (o aura: termine ripreso dal grande saggista filosofico Walter Benjamin) di emozioni, percezioni istintive, associazioni verbali, circolanti intorno agli scritti che ci colpiscono: cioè ai testi rivelatori, ovvero i testi che in qualche modo e misura ci trasformano. Come può riscoprire (per fare un ultimo esempio) chi passeggi per il quartiere newyorchese di Wall Street, semideserto in una domenica pomeriggio, e ne scopra ancora una volta la bellezza antiquata, austera, quasi elegiaca (il Tempio del Denaro, che domina la vita dell’intera settimana, è chiuso per oggi).
Può darsi allora che gli torni alla mente quale sia il sottotitolo del famosissimo racconto di Herman Melville il cui titolo è: Bartleby, lo scrivano (che è del 1853, ma sembra che sia trascorso più di un secolo dall’idillica narrazione di Washington Irving). Quel sottotitolo è: Una storia di Wall Street. Ed è sentendo la forza di questa connessione che uno sente di “tradurre” spiritualmente il laconico, gentile, disperato rifiuto – I would prefer not to (Preferirei di no) – che Bartleby oppone alla società e alla vita.
–
(Dall’intervento alle Giornate della Traduzione Letteraria (Tre giorni di lezioni magistrali, seminari e tavole rotonde sulla traduzione e l’editoria), a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani, Palazzo Buonadrata, Rimini, 30 settembre-2 ottobre 2022)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI