L’occasione fa l’uomo leader. Potremmo sintetizzare così l’insegnamento che si trae dalla lettura dell’ultimo libro scritto per Rizzoli da Antonio Funiciello: Leader per forza. E, d’altra parte, nessun esempio potrebbe meglio rappresentare questa conclusione di quello che abbiamo tutti davanti agli occhi e che riguarda il Presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky diventato suo malgrado un eroe di fronte al suo popolo – e a un consistente pezzo di mondo – per il modo in cui è riuscito a trascinare il Paese nella resistenza all’invasore russo.



Mai come in questo momento una riflessione sulla leadership appare appropriata. E non sarà un caso che proprio in questi giorni due avvenimenti ci sottopongono il tema con forza rinnovata: le celebrazioni per i cinquant’anni dalla morte del banchiere Raffaele Mattioli (con un bel convegno, in particolare, organizzato da Intesa Sanpaolo) e la morte a 100 anni compiuti del grande politico e diplomatico americano di origini ebreo-tedesche Henry Kissinger. In ruoli e occasioni molto differenti entrambi hanno lasciato in segno.



Se, infatti, si vuole isolare un tratto comune nei leader trasformativi – gli unici che davvero contano e possono definirsi tali – è proprio la capacità di cambiare le cose in profondità (trasformarle) lasciando agli eredi, meritevoli o meno che siano, una situazione mutata in profondità e interprete dei nuovi tempi. L’altra forma di leadership, che l’autore chiama trasformista, si commenta da sé e forse non dovrebbe neanche essere presa in considerazione: a cambiare faccia è il presunto leader, a seconda delle circostanze, perché alla fine nulla cambi.

Dunque, la leadership è una cosa seria. Per la quale occorre avere doti innate che vengono fuori quando gli eventi chiamano e si affinano con l’esperienza. Come insegna la storia di Mosè, da cui parte il racconto, che imbeccato da Dio in persona si assume la responsabilità di traghettare la sua gente, gli ebraici, dall’Egitto alla terra promessa dedicando all’impresa quarant’anni della sua lunga vita (senza alla fine godere egli stesso del successo conseguito). Se sbagliando s’impara, Mosè dimostra di aver molto imparato dai suoi tanti errori.



Il volume riporta il contributo alla causa di sei grandi personaggi più uno: Golda Meir, Harry Truman, Camillo Benso conte di Cavour, Abramo Lincoln, Nelson Mandela, Vàclav Havel e in conclusione Angela Merkel, unico esemplare vivente nel Pantheon descritto da Funiciello. Tutti hanno qualcosa da insegnare e ciascuno è stato interprete dei bisogni della propria epoca riuscendo a raggiungere risultati non scontati e tuttavia fondamentali per l’evoluzione della società, dell’economia, delle persone. Con loro e dopo di loro tutto è diverso.

L’autore ha un indubbio vantaggio a trattare di questi argomenti perché ha avuto l’opportunità (o la fortuna che Niccolò Machiavelli manda in sposa con la virtù) di lavorare accanto a due interessanti espressioni della leadership dei nostri giorni come Paolo Gentiloni e Mario Draghi, entrambi ex presidenti del Consiglio. Del secondo, in particolare, viene in rilievo il metodo: il più evidente strappo con il passato che consiste in una miscela originale di forma e sostanza. È una complessa alchimia quella che consente d’intercettare quando serve la persona giusta.

Insomma, si potrebbe dire che esistono molte leadership potenziali e sprecate per mancanza di occasioni e molte occasioni alla ricerca di leadership competenti. Quando i due termini del problema s’incontrano scocca la scintilla ed è un bene per l’umanità. Oggi ad aver estremo bisogno di un leader trasformativo come di quelli tratteggiati da Funiciello è l’Europa con il suo corpaccione esangue, indecisa sul da farsi, paralizzata dalle stesse regole che si è data. Se è vera la teoria fin qui esposta, non ci resta che attendere il Salvatore (o la Salvatrice).

Anche perché la posta in gioco non riguarda solo – si fa per dire – il governo della nazione o dello Stato che l’Europa dovrebbe diventare per prendersi cura di sé e dei suoi abitanti, uscendo dalla condizione adolescenziale nella quale si è fin qui rifugiata, ma la tenuta dei problematici regimi democratici nei confronti dei ben più efficienti regimi autoritari.

La leadership conquistata ed esercitata attraverso il consenso è molto più laboriosa di quella interpretata da autocrati che nel prendere decisioni non hanno che da ascoltare il proprio giudizio.

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