Lunedì 15 gennaio scorso nella trasmissione di Corrado Augias La torre di Babele, dedicata questa volta alla parola patria, quando il noto giornalista discuteva con lo scrittore e storico Antonio Scurati è emersa quasi in sordina una verità scomoda che spesso si preferisce dimenticare. Se l’Italia non fosse entrata in guerra nel 1915 – e questo non era scontato – non ci sarebbero stati almeno 600mila morti per lo più giovani e non ci sarebbe stato molto probabilmente il fascismo che è, di fatto, una conseguenza della tragica situazione economica e sociale determinata dalla guerra. Il fascismo, a sua volta, ha ispirato altri totalitarismi come il nazismo che hanno poi contribuito a scatenare la seconda guerra mondiale con le sue immani tragedie.



Certo la storia non si fa con i se. Ma ci si può chiedere: chi ha voluto fermamente l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale che è il fattore che ha portato a questa catena di sciagure? Non i liberali, a partire da Giolitti, non la maggior parte dei cattolici, a cominciare da Benedetto XV fino a milioni di contadini, i cui figli nella guerra hanno pagato il prezzo più alto; non i socialisti riformisti. L’hanno voluta i nazionalisti, i socialisti massimalisti come Mussolini, alcuni intellettuali cattolici modernisti, gli intellettuali futuristi che auspicavano un “bagno di sangue”. Insomma la maggior parte di coloro che per professione possiamo chiamare  intellettuali, e che si consideravano avanzati progressisti, tra i quali molti studenti universitari e liceali. Si trattava certo di una minoranza, ma assai determinata.



A volte sembrerebbe giusto chiedersi se non siano solo i sonni della ragione a generare mostri come osservava Goya, ma anche il non senso e la noia di molti intellettuali bisognosi di recuperare un rapporto con la realtà e con la vita che hanno perso. Non a caso quando si usa molto il termine azione e termini analoghi che evocano il dinamismo, come accadeva allora, la lingua sembra battere proprio là dove il dente duole.

Ma gli esempi della difficoltà di molti intellettuali a comprendere il presente, a sintonizzarsi con esso e a fornire risposte adeguate si potrebbero moltiplicare. Come emerge anche dal recente film Oppenheimer, molti scienziati ebrei comprensibilmente antinazisti che contribuirono a preparare la bomba atomica simpatizzavano fortemente e talora fattivamente, ma non molto saggiamente, con il comunismo staliniano. Osservazioni analoghe si potrebbero fare a proposito dell’atteggiamento di diversi esponenti della classe intellettuale in Italia negli anni intorno al Sessantotto e del clamoroso divario esistente sul piano delle opinioni politiche fra laureati e resto del popolo che si registra da tempo negli USA. Questo rischio di uno stacco profondo, di una incomprensione fra intellettuali e popolo è oggi forse più presente che in passato a motivo della maggiore specializzazione degli intellettuali, favorita anche dalle politiche della ricerca, da una parte, e dal più frammentato quadro sociale dall’altra. A ciò si aggiunge il ruolo esorbitante della rete e il venire meno dei rapporti in prima persona. Tutto ciò  rende anche assai più difficile pensare alla figura dell’intellettuale organico di gramsciana memoria.



Del resto nulla di nuovo sotto il sole: già il sempre attuale Aristotele nella sua Etica nicomachea distingueva la saggezza (phronesis), che  coincide con la vera bontà, con la capacità di valutare rettamente il da farsi e che matura non grazie allo studio, ma grazie alla memoria viva di buoni esempi, da altre virtù intellettuali, pur importanti, ma che, in quanto tali, non rendono l’uomo saggio. E senza per questo voler negare che la ricerca scientifica svolga un’insostituibile funzione sociale in una società complessa, come nel caso della recente preparazione dei vaccini anti-Covid e pure in molti altri casi, non ultimo nell’assai auspicabile lavoro di conservazione e trasmissione della memoria storica.

In una società come la nostra, dei ricercatori abbiamo certamente sempre più bisogno. Ma scienza e saggezza devono crescere insieme, perché non possono fare a meno l’una dell’altra. Ed è la pratica della saggezza che coincide con quella che chiamiamo esperienza in senso forte (essere un uomo d’esperienza!), e non innanzitutto le conoscenze scientifiche a creare comunità (il popolo), a permettere cioè di trovare un piano comune che renda possibile un rapporto con tutti, quindi anche fra intellettuali e non, in quanto sul piano della saggezza questa stessa distinzione non sussiste.

Tutti sono in grado di contribuire alla maturazione della saggezza attraverso un’attenzione continuamente rinnovata alla propria esperienza di vita, alla realtà in tutti i suoi aspetti, agli incontri anche imprevedibili che si possono fare ogni giorno e non solo alle nozioni acquisite con lo studio, come pure grazie a un confronto leale ed empatico con gli altri al di là degli steccati professionali, ideologici e generazionali e delle bolle create dalla rete. E della rigenerazione di un tessuto sociale abbiamo urgente bisogno anche per il bene delle nostre democrazie.

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