Luigi Zoja è uno psicoanalista di fama mondiale, past president dell’Associazione internazionale di psicologia analitica e vincitore di due premi Gradiva Award per la letteratura psicologica. Ha recentemente presentato, presso la Biblioteca della Città di Arezzo, in un incontro guidato da una sua allieva, Ines Marzi, il volume Paranoia. La follia che fa la storia, recentemente rieditato da Bollati Boringhieri. Nel testo vi è una nuova prefazione mirata all’attualità e volta a illustrare come quella specifica patologia abbia ancora una volta innescato i motori della storia, attuandosi in maniera inquietante e pericolosa nell’invasione dell’Ucraina.



Professor Zoja, vuole presentarci in sintesi i contenuti del suo libro sulla paranoia?

È importante il sottotitolo del libro, La follia che fa la storia, perché si tratta di una deformazione mentale che non riguarda soltanto i casi singoli, ma anche i movimenti collettivi, che facilmente possono diventare paranoici. Come diceva Nietzsche, il disturbo mentale e la follia nel singolo sono l’eccezione, ma nella massa diventano dominanti. Pensiamo, ad esempio, al folle entusiasmo con cui è iniziata la Grande guerra, di cui tutti si sono pentiti e che non c’era mai stato prima di allora. Da sola la Prima guerra mondiale ha fatto più morti, quattro volte più, di tutte quelle precedenti. Ovviamente alla sua conclusione l’entusiasmo non c’era più neppure nei vincitori, e abbiamo compreso che l’“umano” è sottoposto a delle deformazioni mentali di massa, non eccezionali ma regolari, in momenti di particolare tensione. La Seconda guerra mondiale è andata in modo differente, ma anche allora si sviluppò un entusiasmo di massa per la guerra, creato dalla propaganda dei regimi dittatoriali. Questa è una cosa su cui, in Occidente, anche oggi ci si interroga con preoccupazione riguardo alla guerra in Ucraina; ci si chiede cioè fino a che punto sia vero l’entusiasmo con cui viene seguita la politica di Putin e le sue dichiarazioni bellicose che includono anche la minaccia nucleare. Gli studiosi internazionali di scienze politiche, che tengono aggiornato il bollettino dei dati che ci avvicinano alla guerra nucleare e controllano il famoso orologio che calcola il tempo prima della catastrofe, ebbene quegli scienziati hanno avvicinato molto le lancette alla mezzanotte, nel senso che possiamo essere vicini a un momento di non ritorno. Ho apportato alcuni aggiornamenti al libro che era già stato pubblicato una dozzina di anni fa e soprattutto ho scritto una prefazione nuova in cui parlo di una sindrome collettiva che ho chiamato Mad 2.



Che cosa significa?

Mad 1, dall’acronimo inglese Mutually Assured Destruction, indicava l’equilibrio del terrore che aveva tenuto in piedi la cosiddetta guerra fredda, quando gli armamentari nucleari americano e sovietico erano talmente potenti che era inevitabile trovare un accordo per evitare la catastrofe. C’era persino la linea rossa tra Mosca e Washington per telefonarsi ed evitare che, per malintesi incidenti, partisse il primo attacco nucleare, che avrebbe scatenato di conseguenza delle rappresaglie. L’acronimo Mad significa “distruzione reciproca assicurata” ma anche, messo insieme, compone la parola “Mad”, cioè “pazzo” in inglese. Io l’ho chiamato Mad 2, perché ho ricordato la frase detta da Hitler a Mussolini, nel loro ultimo incontro, quando già la guerra stava andando disastrosamente sia per il fascismo sia per il nazismo e cioè: “Dio mi perdoni gli ultimi cinque minuti di guerra”. Egli era convinto che i tecnici e gli scienziati che lavoravano alle famose armi segrete non fossero lontani dal conseguire risultati. In effetti i missili, i primi missili efficaci, c’erano, non per colpire l’America, ma per colpire l’Inghilterra e la colpirono continuamente, aldilà della capacità dell’aviazione tedesca, che era ormai ridottissima. I missili infatti potevano sfuggire al controllo della contraerea. Evidentemente Hitler aveva l’idea dell’arma assoluta. Infatti gli scienziati tedeschi, gli ultimi rimasti fedeli al regime, dopo che molti di loro erano scappati – qui c’è un’analogia molto forte con quello che succede oggi in Russia –, lavoravano all’ordigno nucleare e l’umanità se l’è cavata probabilmente per non molto… Dopo la guerra c’è stata la corsa tra sovietici e americani per accaparrarsi quegli scienziati tedeschi. Qualcosa di simile potrebbe tenerci in serbo oggi la politica internazionale, se solo si potesse parlare di politica internazionale, perché in realtà non c’è dialogo, non c’è la linea rossa che univa Mosca a Washington.



Eppure oggi ci sono dei tentativi di dialogo sulla guerra in corso.

Ci sono dei tentativi di dialogo, ma sono poco credibili. Ve ne sono tramite la Cina, che è poco credibile in sé, e tramite il Vaticano, ma senza una vera capacità di pressione. Quindi ci dobbiamo rassegnare effettivamente a quello che avviene nella testa di chi comanda il Cremlino. E lo dico intenzionalmente, perché anche lì non si capisce bene chi comandi e quindi c’è un potenziale di follia nella follia. Occorre che i vari folli si mettano d’accordo. Quindi trovo che la paranoia sia attuale e chi si occupa di queste cose potrebbe o dovrebbe avere interesse al mio testo, perché ricostruisce storicamente come si arriva alla situazione attuale. Il meraviglioso progresso dei mezzi di comunicazione ha messo a disposizione strumenti efficacissimi per forme di pensiero semplicissimo e primitivo. Quindi si è espanso ciò che oggi chiamiamo populismo, cioè una semplificazione degli argomenti, perché la comunicazione più semplice è quella molto breve, in cui si strilla contro un vero o presunto nemico, non la comunicazione che parla di politica nazionale ed internazionale, che richiederebbe argomentazioni ed analisi. Ultimamente, tutti i mezzi di comunicazione, grazie a Internet e ai social, sono praticamente utilizzati individualmente. Certe comunicazioni, che contengono invenzioni e falsità, possono così essere destinate a milioni di persone. Alcune follie che ha recentemente fatto circolare Trump sono state lette da una moltitudine di persone, prevalentemente americani – non certo dai poveri diavoli dell’Africa affamata –, persone appartenenti ad un ceto che poteva e può avere influenza nella politica mondiale. Quindi siamo nelle strette di molte circostanze difficili. La distruttività è piuttosto veloce e instilla idee paranoiche. Per paranoia si intende l’incapacità di guardare agli sbagli e al male dentro di sé e la necessità – mi lasci usare i termini tecnici psicoanalitici – di scissione e proiezione. La scissione di qualcosa da me, che poi attribuisco completamente ad un altro.

Ciò accade, tuttavia, anche nelle dinamiche ordinarie della nostra vita.

Infatti, ho fatto notare, cosa che può essere interessante anche per il lettore comune, che si tratta di una psicopatologia diffusa, che pratichiamo in una certa misura tutti. È una deformazione, un portare all’eccesso un meccanismo di difesa che di per sé è necessario, come la sospettosità e il diffidare dell’altro e il non sopportare di sentirsi additato come colpevole. In ogni famiglia cosiddetta normale, tra coniugi oppure tra genitori e figli, si punta il dito e si dice “Tu hai fatto questo… tu hai rotto la lavatrice… tu hai lasciato la porta di casa aperta…”. Nonostante tutto, questo meccanismo di solito erompe e rientra in ventiquattro ore, cioè nel giro di normali cicli. Quindi una certa dose di paranoia è inevitabile, ma dobbiamo gestirla e mantenerla nei limiti dell’accettabilità. Direi che, se proprio si volesse tracciare un crinale, una linea critica al di qua della quale si resta nella normalità e aldilà se ne esce, essa è data dal fatto che definiamo paranoico chi è incapace di introspezione e non sa guardarsi dentro. Non ha una dimensione interiore, non riesce a capire le proprie motivazioni e quindi, quando qualcosa va male, è sempre attribuibile all’esterno, invece che all’interno della personalità. Questa è la differenza. Se noi riusciamo a capire questa differenza e un individuo sente che le cose possono essere oggettivamente esterne, ma anche soggettive e interne, ed è capace di rintracciare in sé una parte di responsabilità, noi non abbiamo un mondo paranoico e possiamo dialogare. Dopo la Grande guerra, ad esempio, ci fu l’irruzione dei regimi fascisti, che diventavano sempre più normali, prima in Italia, ma poi in tanti altri Paesi che seguivano quel modello. Tuttavia, lungo il fronte principale dove il conflitto si era combattuto, cioè sul fronte franco-tedesco, che aveva coinvolto Paesi con alte, agili e funzionanti istituzioni universitarie, subito dopo la guerra, si sono tenuti congressi fra gli storici francesi e tedeschi per studiare al più presto possibile tutti i dati a disposizione. Anche se la storia si fa dopo un qualche tempo, si tentava comunque di concordare una ricostruzione paziente su come era scoppiata la Prima guerra mondiale. Grazie ai dati oggettivi e divulgabili che vengono da istituzioni credibili – non da partiti politici, che li presentano sulla fiammata delle emozioni e dei risentimenti del momento e si dirigono non alla testa ma alla pancia degli elettori –, grazie a questa ricostruzione si poteva tentare di mantenere le cose in equilibrio e affrontare i problemi. Ma non c’è stato tempo sufficiente… Oggi i problemi sono particolarmente difficili perché viviamo nell’angoscia della cosiddetta apocalisse nucleare. Esistono tante armi nucleari in giro che ne basterebbe l’uso di una piccola quantità per farci tornare all’età della pietra.

Vorrei chiederle un’ultima cosa su Zelensky. Dal momento che lei ha connesso la paranoia con la mancanza di morale, anzi di eticità, perché la paranoia non rispetta l’ethos collettivo, cioè non si pone in relazione agli altri, ebbene nella scelta di Zelensky di non fuggire dall’Ucraina, nonostante l’offerta degli americani, c’è stato, secondo lei, il segno etico di un’istanza antiparanoica oppure no?

Secondo me c’è stato il segno di un’etica antiparanoica e anche di quello che, nel mio piccolo, avevo constatato, andando a insegnare in un paio di occasioni a Kiev. Infatti, avendo conosciuto la maggior parte dei colleghi psicoanalisti ucraini (non sono molti), posso dire che nei trent’anni di esistenza come Stato indipendente, pur con molta fatica, l’Ucraina ha proceduto regolarmente e in maniera piuttosto densa sul cammino della democrazia. Zelensky è proprio un punto d’arrivo su questo. La politica non è perfetta e in molti ministeri e nel sistema giudiziario c’è stata corruzione, come in tanti altri Paesi che hanno fatto domanda per entrare nell’Unione Europea. Occorre molto tempo, perché quelle istituzioni devono funzionare meglio prima che quei paesi possano entrare nell’Ue. Però il meccanismo per entrare è quello. Su questo dobbiamo distinguere chiaramente tra le due realtà, in pratica la Russia è rimasta da secoli un’autocrazia, la quale, vaghissimamente negli anni 90, ha avuto una certa libertà, garantendo per esempio un qualche accesso agli archivi storici. Un accesso che adesso nuovamente non c’è più ed è durato poco, per cui non riusciamo a ricostruire cosa effettivamente avvenga durante le elezioni e se siano effettivamente libere oppure no. Invece, in questi trent’anni l’Ucraina ha funzionato e ci sono state elezioni libere. Quando c’è stata una eccessiva pressione esterna sulla politica interna, allora è scoppiata la rivolta del Maidan, su cui esiste un bellissimo documentario fatto dall’interno e su cui ho ascoltato tante ricostruzioni fatte da quelle stesse persone, anche da colleghi, che nell’inverno campeggiavano in quell’immensa piazza. Insomma c’è una società civile che reagisce e che funziona e Zelensky è il prodotto di questa. Poi naturalmente è anche uno che di professione faceva l’attore e ciò ha influito su tutti i suoi messaggi video trasmessi. Sì, perché sa essere un tipo convincente e con la sua divisa militare egli ci ricorda che lui è sotto le bombe. Certamente si appella a fatti e azioni gravi oggettivamente riferiti, mentre dall’altra parte, quella russa, questo non avviene, non c’è un potere legittimato da elezioni libere e ci sono dei messaggi rivolti ad eccitare la paranoia nella popolazione. È curioso che il Paese più grande del mondo, il più incircondabile, denunci di essere sempre circondato da nemici. In realtà so che anche molti colleghi russi, che non volevano più restare, hanno potuto abbandonare il Paese proprio perché è così grande che riesci facilmente a passare la frontiera. Probabilmente anche a entrare, ma non c’è l’immigrazione clandestina in Russia e questo ci dice qualcosa… Possiamo interpretare il tutto, ma – e lo dico contro i miei studi, contro il mestiere – prima di interpretare, fermiamoci ai fatti che oggettivamente sono riscontrabili: da una parte c’è un sistema democratico imperfetto e dall’altra c’è un’autocrazia purtroppo sostanzialmente non diversa da quelle che hanno accompagnato i disastri del secolo ventesimo. Certo mi è capitato anche di discutere con amici e con colleghi i quali sostenevano che anche nell’Ucraina c’è corruzione. Sì, c’è corruzione, ma se tu guardi all’Africa, quasi tutte le repubbliche sono corrotte. Volete forse dire allora che quelle nazioni sarebbero dovute restare inglesi e francesi, cioè colonie, perché effettivamente gli Stati postcoloniali sono più corrotti del regime coloniale? Il passaggio alla democrazia è qualcosa di molto lungo e complesso e l’Ucraina lo sta affrontando da Paese europeo, cioè comprimendo i tempi, non come quei Paesi africani in cui è perenne la corruzione. Quindi, tutto è relativo e non c’è una transizione perfetta, però sicuramente c’è una transizione e in sostanza anche l’inattesa resistenza all’attacco militare è frutto di uno Stato relativamente modernizzato e democratizzato. Uno Stato che funziona, in cui ad esempio nell’esercito ci sono varie catene di comando e non è tutto concentrato nei vertici, che poi sono animati da ambizioni di potere, come nel regime russo. Una collega che ormai conosco bene, la più giovane psicoanalista di Kiev, più giovane addirittura dei miei figli e che abita presso mia figlia a Milano, svolge tuttora il suo lavoro, nel senso che le sono rimasti i pazienti in Ucraina e li incontra online. Resta in video tutto il giorno, poi la sera prende lo smartphone e comunica con suo marito, che è rimasto al fronte. La sua vita mi colpisce, perché lei è una persona che adesso fa parte praticamente della mia famiglia. È una donna abbastanza giovane, una trentenne, e io sapevo che si era sposata da poco. Quando le ho chiesto cosa facesse suo marito, lei mi ha risposto: artiglieria. Cioè la professione era quella di artigliere, perché c’è la guerra, dimenticando che era un tecnico informatico. L’hanno messo lì perché sa calcolare bene le coordinate di tiro. La guerra stravolge tutta la vita.

(Alessandro Artini)

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