Nel XXI secolo la barbarie si dice in molti modi: “barbarie multiculturale”, “barbarie della tabula rasa”, “barbarie dolce”, “barbarie della damnatio memoriae”, “barbarie dell’autocensura”. Il libro di Giulio Meotti, I nuovi barbari (Lindau, Torino 2023) offre un’indagine compatta e al contempo estremamente documentata che mette a fuoco con perizia, sia nell’esame dei singoli fatti che nella visione d’insieme, le dimensioni molteplici di un accelerato processo di imbarbarimento che sta facendo scivolare le società occidentali “in un nichilismo morbido, seducente, narcotizzante” molto diverso da quello del secolo scorso. Da qualche anno in Occidente un “nuovo ordine” ideologico instaurato e diffuso in modo massivo da alcune élites – dall’ambito accademico a quello pedagogico, letterario, musicale, artistico, etc. – si è imposto come ultima istanza preposta a vegliare, sorvegliare e sentenziare su ogni tipo di ingiustizia e discriminazione sociale e politica. Esso non tollera di poter essere contraddetto e demonizza chiunque lo metta in questione, fino ad esercitare sistematicamente sui singoli la censura, esponendoli alla gogna mediatica e ostacolandone pesantemente le relazioni interpersonali, la professione, le collaborazioni.



“I diritti di protezione delle minoranze – scrive Meotti – si trasformano in diritti alla maggioranza e in dovere di conformismo. Il pulsante ‘mi piace’, premuto a ripetizione, diventa un diritto umano. L’aborto? Anche dopo la nascita. L’eutanasia? Per i bambini e per i disabili fisici e mentali. Non ci devono essere padri, madri, figli e figlie, maschi e femmine, culture, storie e nazioni. In cambio avrete solo il divertimento e la ‘creatività’. La modernità diventa la propria stessa caricatura. Tutti liberali”.



Per comprendere la pericolosità reale del nuovo sistema ideologico moralistico, omologante il pensiero e il linguaggio, Meotti si rifà all’acuta riflessione del filosofo Augusto Del Noce, secondo cui l’ideologia totalitaria, rievocando la definizione di Eric Voegelin, consiste essenzialmente in un “divieto di fare domande”. Così, afferma Del Noce, “il conformismo del passato era un conformismo delle risposte, mentre il nuovo risulta da una discriminazione delle domande per cui le indiscrete vengono paralizzate quali espressioni di ‘tradizionalismo’, di ‘spirito conservatore’, ‘reazionario’, ‘antimoderno’, o magari, quando l’eccesso di cattivo gusto giunge al limite, di ‘fascista’; si giunge alla situazione in cui sia il soggetto stesso a vietarsele come ‘immorali’. […] Il dissenso viene reso impossibile, non per vie fisiche, ma per vie pedagogiche. È nella sua trasposizione al ‘morale’ che il totalitarismo raggiunge la sua forma pura” (Gramsci, o il suicidio della rivoluzione, 1978).



Il professor Éric Marty (Università di Parigi VII Denis Diderot) ritiene che la teoria del gender abbia preso “il posto del marxismo nell’immaginario collettivo come orizzonte non più di emancipazione collettiva, ma individuale”, e che il movimento che a tale teoria si ispira abbia mutato il proprio orientamento da libertario in autoritario, rigido e repressivo, come attesta il “nuovo attivismo di sorveglianza”. Secondo Olivier Amiel (6 marzo 2021) il nuovo pensiero ideologico, perseguendo finalità simili a quelle della Hitlerjugend (Gioventù Hitleriana) e del Komsomol  (Gioventù Comunista dell’Unione Sovietica), cerca innanzitutto di plasmare le menti dei giovani per mobilitarli in favore del progressismo liberale dell’“Impero del Bene”, previsto da Philippe Muray trent’anni fa, servendosi oggi della potente pratica della cancel culture.

Un paio di esempi: all’Università di Princeton, nota Meotti, “gli studenti non sono più tenuti a imparare il greco e il latino per favorire un ambiente più inclusivo ed equo. La decisione è stata presa per combattere il razzismo sistemico”. E il rinomato critico letterario di Le Monde, Pierre Assouline, dichiara sprezzante: “La guerra contro le discipline umanistiche greco-latine ha appena svoltato: non si tratta più di criticarle, denunciarle, ridurle, ma di distruggerle”.

Questa barbarie della damnatio memoriae nei confronti dell’antichità classica e, più in generale, la pianificata cancellazione della memoria di beni culturali del passato è sintomo, in Occidente, dell’assenza del padre, della perdita del significato della paternità, fisica e spirituale, di una pervicace ribellione dei figli nei confronti della paternità dei padri. Non a caso sant’Agostino afferma nel suo De Trinitate (XV, 23,43) che la potenza della “memoria” nell’anima, creata ad immagine di Dio, presenta una certa somiglianza della Persona del Padre.

Notiamo qui per inciso che il politologo della Notre Dame University Patrick J. Deneen, nel suo saggio Why Liberalism Failed (2018), ha mostrato come nel giro di cinquant’anni si sia verificato un mutamento radicale dell’atteggiamento educativo nei college e nelle università nordamericane che, essendo state inizialmente concepite come istituzioni “in loco parentis” (in rappresentanza del padre e della madre), sono ora pervase da una nuova forma di “in absentia parentis” – lo “Stato paternalistico”. La pessima delega allo Stato del principio di paternità e di autorità è l’esito di una crisi e di uno svilimento della paternità e della norma paterna, dell’obbedienza filiale, ultimamente della realtà comunionale del matrimonio e della famiglia; uno svilimento individualistico che in Occidente ha un corso storico ben più lungo di qualche decennio, dato che le sue premesse teoriche, rileva Deneen, risalgono ad almeno quattrocento anni fa nel pensiero del “primo filosofo liberale”, John Locke.

Rispetto ai regimi totalitari del XX secolo, l’odierna forma di totalitarismo soft esercita il suo controllo non solo sulle libertà, ma anche sulle parole e i pensieri degli individui, servendosi dei “social” come subdola macchina repressiva: “La società occidentale così si sovietizza, non nel senso di una presenza dei comunisti e dei loro alleati al potere, ma nell’attitudine al totalitarismo culturale”.

In questo scenario, prosegue Meotti, la testimonianza di chi è vissuto in un regime repressivo è di importanza vitale, perché loro sanno molto meglio di noi che cosa significhi la libertà di pensiero e quanto costi difenderla. Già l’8 giugno 1978, nel suo discorso inaugurale all’Università di Harvard, Aleksandr I. Solženicyn tracciava un parallelismo tra la stampa uniformata dell’“Est comunista” e il “trend generale di preferenze” della stampa occidentale, dettato dallo “spirito del tempo”. Anna Krylov, scienziata nata in Unione Sovietica, una delle principali ricercatrici di chimica quantistica e professoressa nell’Università della California, il 10 giugno 2021 sul Journal of Physical Chemistry Letters ha scritto: “Il paese indicato sul mio certificato di nascita e sui miei diplomi universitari, l’URSS, non è più sulla mappa. Ma mi ritrovo a vivere la sua eredità a migliaia di chilometri a Occidente, come se vivessi in una zona d’ombra orwelliana. Sono testimone di tentativi sempre maggiori di sottoporre la scienza e l’educazione al controllo ideologico e alla censura. Proprio come ai tempi dell’Unione Sovietica, la censura è giustificata dal bene superiore”. E Yeonmi Park, la più conosciuta disertrice nordcoreana, autrice de La mia lotta per la libertà (2015), ci avverte: “Vi stanno costringendo a pensare nel modo in cui vogliono che voi pensiate. In America ho visto così tante somiglianze con ciò che ho visto in Corea del Nord che inizio a preoccuparmi”.

L’omologazione del linguaggio e delle parole va di pari passo con la perdita della libertà interiore di pensiero e di giudizio. Un prete cattolico italiano che di popoli e culture, di libertà in regimi autoritari e di viaggi europei e intercontinentali ne sapeva qualcosa – alcuni amici lo chiamavano “don Kilometro” – disse che per un popolo è più pesante perdere una parola che perdere una guerra.

Meotti riprende il giudizio del filosofo Rémi Brague, intervistato per la rivista spagnola Misión (marzo 2022), il quale osserva che “ci vuole solo una generazione per perdere la cultura dell’Occidente. Una cultura è sempre qualcosa di fragile. E la distruzione culturale può procedere molto veloce. Dobbiamo ricordare che la distruzione è più facile della creazione, perché richiede meno tempo. Ecco perché la cancel culture si sta muovendo così velocemente. La barbarie ha sempre un vantaggio sulla cultura, basta seguire il flusso, mentre la cultura richiede uno sforzo per preservarla”.

La cultura non è un sistema di pensiero e di valori astratto e impersonale che sovrasta le vite degli uomini, ma sgorga dall’impegno e dal lavoro dell’uomo destato dal fascino della bellezza trascendente, che gli dona l’energia e la speranza di generare opere che non si consumano mai, come disse l’allora card. Karol Wojtyła in una relazione presso l’Università Cattolica di Milano il 18 marzo 1977, citando il poeta cattolico polacco Ciprian Kamil Norwid: “Il bello è tale, per rendere affascinante il lavoro/ il lavoro, perché si risorga” (Promethidion, Dialogo I).

Nell’imperversare di macroscopiche tendenze disgreganti le culture di comunità e popoli, la fedeltà nel tempo del proprio operare quotidiano, nutrito dalla comunione vissuta con la verità, il bene e la bellezza, è in fondo ciò che edifica e resiste alla barbarie. Vengono in mente le parole di un padre, Alexander, a suo figlio all’inizio del film del regista russo Andrej Tarkovskij, Sacrificio (1986): mentre pianta nel terreno vicino al mare un albero secco, il padre racconta al figlio la storia di un vecchio monaco ortodosso di nome Pamve, il quale piantò un albero secco sul pendio di una montagna. Poi disse a un giovane monaco, Ivan Kolov, di innaffiare l’albero tutti i giorni finché fosse diventato verde. Ogni mattina presto Ivan riempiva un secchio d’acqua, si arrampicava sulla montagna e innaffiava l’albero secco, per poi tornare in monastero all’ora del tramonto. Fece così per tre anni, finché un mattino, salito sul monte, vide che tutto l’albero era coperto di gemme. Alexander, sorridendo, commenta: “Il metodo è una grande cosa”. Le azioni più semplici e meno appariscenti degli uomini semplici, fatte con perseveranza giorno dopo giorno, sono quelle che cambiano il mondo.

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