Una riflessione sui classici che si reputi stabile, non può dare per assodato e sicuro che i classici siano quelli che convenzionalmente reputiamo tali: ad esempio, la scultura greca, Platone, Dante, Michelangelo, Leopardi, Manzoni. Se si assume come certezza questo dato apparentemente indubitabile, di fatto noi ci precludiamo gran parte della meditazione sui classici. Eppure ogni casa editrice che si rispetti ha la sua collana di classici, offre periodiche riletture critiche dei nomi del passato. Ciascun professore, studioso e intellettuale attua una sua particolare navigazione dentro i “magna nomina”, i grandi nomi che giudichiamo costituire l’eredità indubitabile perlomeno della nostra civiltà. Così, ad esempio, sul classicismo greco-romano, sulle serie e sulle interpretazioni, Salvatore Settis ne ha fatto non solo motivo di approfonditi saggi (tra cui, Futuro del “classico”, Einaudi, 2004) ma anche mostre assai preziose alla Fondazione Prada; su talune opere giudicate capitali per il pensiero e l’estetica europea, Piero Boitani ha innervato il suo volume Dieci lezioni sui classici (Il Mulino, 2017). Ancora attualissimo e fecondo è il saggio, via via riproposto, di Luciano Canfora Noi e gli antichi (Rizzoli, 2002).
Che cosa hanno in comune spesso gli scritti sui classici? Il sottofondo. Essi si muovono riconoscendo l’eredità come eredità, come evidenza, diversamente interpretabile, riscrivibile, ma pur sempre come evidenza. Si fa sempre più strada in me la convinzione che se l’evidenza rimane evidenza, se cioè rimane indubitabilità, la nostra conoscenza, per quanto poderosa, rischia di non muoversi al di fuori di quell’evidenza stessa: un’evidenza enorme, stratificata, ma pur sempre confinata, condizionata dal nostro presupporli come sicuri.
Non si tratta di cadere nella fossa asfittica del cosiddetto relativismo. Non sono qui a dire che Omero è relativo. Ma perché consideri imprescindibile Omero? Sai che per secoli non è stato neppure considerato? E se lo è stato, perché? E sai che gran parte dell’umanità lo ignora tuttora?
Il vero sottinteso, dunque, non è l’indubitabilità dei classici: se la storia ci dice che anche Omero ha avuto i suoi secoli di oblio, vuol dire che la parola “classico”, i classici, non sono il binario di un treno sicuro, ma sono il campo in cui si contendono i desideri, i pensieri, le apatie, le lotte, le indifferenze degli individui che, passo passo, li scelgono, li determinano, li obliano, li rinnovano. Come scrivo nel mio saggio sull’impermanenza dei classici o nelle mie conferenze su questo tema (la prossima a Carrara, ospitata da Qulture), il classico non è ciò che dura per sempre, perché il “per sempre” è negato da noi. Noi neghiamo il “per sempre” nel tempo per affermare un “per sempre” più vivo: che è quello del presente. Non diciamo “Dante vivrà”. Diciamo “Dante è vivo”. Ed è in questo presente che Dante vive. Nel presente della nostra attenzione. Non esistono i “sommi di sempre”. Esiste un sommo solo nel presente di chi lo avverte come tale.
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