Vi si arriva da un sentiero di capre, aspro e sassoso, sotto un sole mattutino già rovente. Ma, scesi verso il mare, la vista ineguagliabile della baia compensa ogni fatica. Acque di trasparenza assoluta, tra il verde e l’azzurro, circondate dalla macchia mediterranea di oleandri e di eucalipti. Siamo soli, perché l’unica via percorribile, tranne quella segnata dal mare, decisamente scoraggia il turista consueto. Restiamo senza parole. L’unico contraccolpo è la muta ammirazione.
Penso che Goethe, nel suo Viaggio in Italia, giunto a Taormina, abbia provato una sensazione simile. Era in un paese “indicibilmente bello”, la Sicilia di fine Settecento. “Se un uomo non si è veduto attorniato dal mare, non può possedere un’idea del mondo, né della sua relazione con il mondo”, scrisse.
L’esito ultimo del sublime è il silenzio e non a caso parliamo di una bellezza mozza fiato. Ma a volte succede che non possiamo tacere, pur sapendo che le nostre parole saranno solo una pallidissima eco di quella emozione. Così Foscolo, nel celebre sonetto, scrisse che Omero “non tacque” la bellezza di Zacinto: meravigliosa litote per esprimere ciò che non si può né dire, né tacere.
Scorgiamo questo paesaggio con gli occhi di qualcuno che già lo vide, o ne vide uno simile: Saba, in una delle sue poesie più belle, ricorda di aver navigato da giovane lungo le coste dalmate e di aver intravisto isolotti, “belli come smeraldi”; lo sospinge tuttora al largo “il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore”. L’Ulisse di Saba ci riporta a Omero e a Goethe il quale, dietro la suggestione dell’autore classico, provò a compilare un dramma ispirato all’episodio di Nausicaa e al suo incontro con l’affascinante straniero; ne rimasero solo dei frammenti, fra i quali il memorabile distico, che ferma nella memoria l’immagine prediletta:
Ein weisser Glanz ruht über Land und Meer
Und duftend schwebt de Ǟther ohne Wolken
(Un bianco splendore riposa su terra e mare
E l’etere si libra vaporando senza nubi)
“Levità e precisione di un istante assoluto”, ha compendiato Ernesto Guidorizzi. Percepiamo che quella bellezza è per noi, che avremmo potuto non essere al mondo, non essere lì, non prendere parte a questo spettacolo. È un dono che viene incontro al nostro desiderio, realizzandolo; un desiderio di cui forse non ci eravamo nemmeno accorti, sopraffatti dall’abitudine, dalla stanchezza, dalla scontatezza.
La bellezza è come un invito, a cui spesso resistiamo, perché ci spinge ad andare oltre, vuole che proseguiamo, ci affida un compito. Dice il vecchio ferroviere in Suttree di McCarthy: “La gente è strana. Non vuole sapere come può essere bello il mondo”.
Ne restiamo sorpresi e grati, come quando natura e cultura si fondono nel breve incanto di una mattina di luglio.
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