L’epica è la strada maestra che ci conduce “alla dimora degli avi”: un’espressione nitida con cui parafraso il grande glottologo russo Ilič Svitič, che la riferiva alla conoscenza delle lingue antiche. Una via che attraversa come un filo rosso i secoli e i millenni, fino a insabbiarsi, ma per poi riaffiorare, mutata, nei generi vari del romanzo (storico, di avventura), o semplice memoria, laddove il registro della scrittura si innalza nel tono. Epica, da epos in greco, “parola” (e quindi si tratta di un radicale del “dire”), significa “narrazione”.
Specificandosi, come primigenia la narrazione della memoria guerresca dei popoli, l’epica esalta le loro imprese belliche, e con esse il loro valore, la virtù dell’eroe. Le imprese inclusero anche l’avventura del viaggio dell’eroe, che si configura da subito come ricerca.
Poemi epici delle nostre terre sono l’Iliade e l’Odissea, poemi greci, dedicato il primo all’ultimo anno della guerra decennale che aveva visto opposi gli Stati greci alleatisi contro Troia sulla terra d’Asia, il secondo che narra il ritorno di Ulisse (con normale trasformazione fonetica latina da Odisseo), in patria, una volta finita la guerra.
Poemi mitologici, dove gli dèi intervengono a favore, o contro i singoli, dèi suggeritori di pensiero e di azioni (la psicologia non distingueva ancora la volontà, come peculiarità umana) dèi comunque sovrastati dall’ineluttabile, cioè il fato.
E il mito, nell’Iliade, come antefatto della guerra, riporta ad una antica preferenza mostrata dal principe troiano Paride per la dea Venere, il dono da lei in compenso promesso della donna più bella, perché di qui nascesse il mito del rapimento di Elena, moglie del re di Sparta Menelao e di qui la guerra. Su questi tratti ancestrali, piove la rugiada della compassione pure tra nemici, il senso dell’onore, il valore degli affetti.
Nell’Odissea, opera più tarda, come la filologia riconosce, predomina, con il viaggio, il senso del meraviglioso, le sirene, la maga, un Ciclope, ovvero per questo riferimento a un solo tondo occhio, la rappresentazione dell’Etna, come la critica razionalista intende la vista per i naviganti di Polifemo. E un elemento da notare e che distinguerà il viaggio dell’epica: l’incontro anche con l’aldilà, che è un desiderio di trovare la verità, toccare l’estrema essenza delle cose.
Nel poema sumero (ca. 2000 a.C., redazione babilonese 500 a. C.) di Gilgamesh, il famoso re di Uruk, che intraprende il viaggio alla ricerca dell’immortalità, l’amico Enkidu discende nella “casa della polvere” mentre Ulisse, nella sua evocazione dei morti, offre sangue di vittime sacrificate alle ombre che gli si affollano d’intorno, per poter parlare con loro. Ulisse vede l’ombra di Achille che, nel lugubre regno, aspirerebbe alla vita più umile pur di vivere ancora, e solo del figlio suo chiede notizie.
Quanto possiamo riflettere su queste parole, sui valori che esse prospettano, su queste note di umanità senza tempo, di struggimento della vita che in tanti autori sarà nei secoli soprattutto struggimento della luce del sole, da Ennio a Manzoni, a Ibsen. Alla cultura umanistica è proprio questo che si chiede: l’approfondimento della humanitas, il primato della ragione e dell’anima, che le tante testimonianze accumulate nel tempo, esse sole, sanno comunicare.
Lo Stoicismo farà di Ulisse un eroe sapienziale e così sarà nella pagina sublimata di Dante. Da ultimo il suo mito sarà allusione alla vita e alla sua quotidianità stessa, avvertita come un viaggio nel romanzo caposcuola della scrittura del Novecento di Joyce.
Roma fiorisce quando la Grecia entra con Alessandro Magno nella nuova età detta ora ellenistica. Il poema greco di questa epoca, Le Argonautiche di Apollonio Rodio (III a.C.), è di viaggio, dà spazio all’amore e di nuovo il mito vela nella metafora dell’oro e della conquista del vello dell’ariete alato il rapporto conflittuale tra popoli, che sempre rivendica possesso e ricchezza.
L’amore entrato così nel poema con una Medea giovane ma già maga e assassina, come trionferà nella tragedia (ma proprio Aristotele diceva che la differenza essenziale tra epica e tragedia si basa nelle differenza dei tempi dell’azione, che nel poema non sono determinati) entra anche nel poema nazionale latino: l’Eneide di Virgilio (I sec. a.C.).
Ancora un principe troiano, questa volta chiamato dal mito a essere progenitore di Roma. In Ennio, autore del poema storico Annales (III-II sec a.C.), pervenutoci in scarsi frammenti, i miti di fondazione di Roma hanno fatto pace e (senza tener conto dei secoli che distanziano la fondazione di Roma 753 a.C. dalla guerra di Troia, 1200 ca. a.C.), Enea è accolto nella mitologia di Romolo, facendolo padre di Ilia-Rea Silvia, madre di Romolo.
Si colgono in Ennio le note ancestrali dei miti sciamanici: i gemelli salvati dalle acque, l’amore di sogno in cui Marte genera i gemelli, mentre nel poema di Virgilio è il desiderio di mitizzare ancora la storia di Roma quando affida all’anatema della donna abbandonata, Didone, e al suo augurato odio tra il suo popolo e quello che discenderà da Enea, la causa prima delle guerre puniche. Alla Didone abbandonata Ungaretti dedicherà, ancora nel novecento, la magia dei suoi versi in eco con quelli antichi.
I miti sono racconti, non solo di suggestioni che nascono da eventi storici e sono chiusi nel tempo, ma rappresentano categorie dell’universale umano e sono filtrati dalla fantasia, dalle utopie, dalla speranza di infiniti individui succedutisi su questa Terra. E soprattutto sono memoria profonda. E per questo sono ricchezza, anima, pensiero.
Non ho considerato finora che il registro alto della scrittura dell’epica è bagaglio linguistico inarrivabile, perché ha attraversato (vale per i più antichi poemi ma non solo) i secoli di oralità con aedi e quindi rapsodi, messi in tempi più tardi in scrittura, ha attraversato commenti e interpretazioni sul testo originale, sui testi di traduzione.
È un linguaggio denso, spesso scivola dall’oracolare al lirico, al didascalico non appesantito mai ma fluido nella sua metrica. La sopravvivenza degli antichi poemi attraverso i secoli fino ai nostri giorni prende significato nella stessa metamorfosi del genere operata dagli autori moderni e nell’ intenso colloquio che si stabilisce tra il passato e il presente.
L’ epica romana conosce anche il poema propriamente storico: la Pharsalia di Lucano (I sec. d.C.), che narra la guerra fratricida tra Cesare e Pompeo. Orrori, colori, barocco anche per l’aldilà narrato dal morto resuscitato dalla magia.
Ma su tutti viene messo in luce un eroe filosofo, non i due guerrafondai bensì Catone Uticense che sente la natura pervasa dal divino, così con gli Stoici e il loro afflato panteista ma secondo pure il più antico sentimento del magico continuum, che unisce uomini e cose e che si snellirà con il tempo nella volontà creatrice di Schopenhauer, nella pura propulsione vitale dell’energia di Bergson. Così il filo che progredisce del pensiero umano e che affascina nel suo percorso.
Senza citare apparizioni singole dell’epica (penso al Beowulf, poema del VII sec. scritto in old english, l’eroe scandinavo che soccorre i danesi contro il drago ed è già di impronta cristiana), l’epica riappare in tutto il suo fulgore nell’età medievale (seconda metà XI-XIII sec.) e sarà epica cavalleresca: i versi e i dipinti a essa ispirata ci riempiono gli occhi di immagini.
Il ciclo di re Artù, dove particolarmente Lancillotto e Ginevra testimoniano nell’epica il trionfo dell’amor cortese e il Parceval (Parsifal), l’elevazione del tono mistico nella ricerca del santo Graal, rappresentano il filone bretone. Storie di cavalieri e di contese, con ispirazione etica cristiana.
Ma è il ciclo carolingio con la Chanson de Roland a rappresentare il nucleo di guerra ideologico, fatto proprio anche dall’Orlando furioso dell’Ariosto, e già dall’Orlando innamorato del Boiardo, come più tardi, entro l’età della Rinascenza, dalla Gerusalemme liberata del Tasso. Ed è la guerra che l’Europa combatté contro gli Arabi, dagli scontri in Spagna di Carlomagno fluiti nella Chanson de gestes di Roland fino alla prima crociata narrata dalla Gerusalemme liberata.
Questo nucleo ideologico coinvolge anche, seppur a latere, il Cid Campeador, eroe della Spagna, che proprio così dà titolo al poema a lui dedicato Se Roland moriva in Spagna nel 778 avendo seguito Carlomagno nella Reconquista contro i Mori, Il Cid, Rodrigo Diaz de Bivar o Vivar (si tratta ancora di personaggi storici), vive nell’XI secolo, quando il Sud della Spagna soprattutto è in piena influenza araba politica e culturale.
Rodrigo, eroe della cristianità, che darà ai musulmani la definitiva sconfitta, togliendo loro Valencia nell’anno 1094, fu più volte nelle grazie dei musulmani stessi, per giochi di alleanze, e sarà definito Cid Campeador, dove Cid registra il nome con cui era chiamato dagli arabi (sayyīdī, ovvero signore, mio signore) e Campeador dal latino campi doctor ovvero il “maestro” del campo di battaglia, espressione della lingua neolatina.
La poesia non è asettica come può esserlo una pagina di storiografia, ma, al contrario, cerca la verità delle situazioni, indaga gli stati d’animo dei personaggi, ridà spessore agli avvenimenti, si interroga sui perché: vantaggio, questo, che si può permettere la scrittura, ed è dove supera le immagini che si snodano di un film che può certo toccare l’introspezione ma non narrarle, per minuto.
Nessuno nega comunque il fascino delle immagini se composte da un grande regista. Ovviamente la cultura nasce dall’insieme delle varie modalità di espressione.
Va tenuto conto comunque che, se la Spagna ancora si adorna di statue equestri dedicate a Rodrigo Diaz, così come ancora nel 1636 il teatro francese con Corneille gli dedicava grande memoria, oppure in pieno Ottocento Delacroix è in grado di rendere ancora esaltante l’Ingresso dei Crociati a Costantinopoli, questo significa che la cultura letteraria colloquia con le arti e i suoi autori infrangendo qualsiasi barriera di tempo.
E sono proprio questi ricordi a darci una parvenza della sopravvivenza, il confortante, cioè, abbraccio di vite gloriose o anche di vite fantastiche che spezza quel senso di solitudine, che accompagna gli esseri umani.
L’epica nell’arte, l’epica nel testo letterario, l’epica in musica di Wagner che nell’800 fa risorgere e divulga nella sua “melodia infinita” l’epica germanica del Niebelungenlied e dell’Edda poetica norrenica con la figura del suo eroe Siegfried: epica come vasta memoria, cosmogonica e infine edenica.
Eppure, c’è ancora una traccia della forza coinvolgente dell’epica che vedo, lasciata la penna, il codice, il dipinto, la voce stessa dell’aedo ed è quando, come riflesso esaltante, riesce a fiorire in nove colori di fili di lana per tessere la memoria della contemporanea battaglia di Hastings (1066), in cui Guglielmo il Conquistatore dalla Bretagna invade l’Inghilterra e sconfigge il suo re Harold.
L’arazzo di Bayeux si snoda per 68,30 metri: brulicano e si affollano figurine distinte: armigeri, cavalli, cuochi, il re, il duca, cervi e chimere e due citazioni per immagini delle favole di Fedro: l’epica non va mai esente dalla morale esplicita o dalla sua deduzione. La battaglia durò tutto un giorno, almeno fino alla morte di Harold. Il canto muto dell’arazzo la ricorda ancora.
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