Esiste un preciso momento, nella storia della letteratura occidentale, in cui all’arte della poesia venne associato il potere di travalicare i limiti dell’umano. Di calarsi negli anfratti più reconditi dell’animo umano per riesumarne il bagliore sbiadito. Di fare da portatrice del senso più alto e nobile dello stare al mondo.



Lo si riconosce da alcune immagini, da alcuni gesti, che, per quanto lontani, ogni tanto riaffiorano, più o meno camuffati, lungo le cascate del tempo. Una lira, un recitare accorato, una storia d’amore dall’intensità disarmante. In altre parole, la tragica e sublime vicenda di Orfeo ed Euridice.

E non sembri paradossale che il canto poetico raggiunga la sua vetta più alta nel luogo che più di ogni altro sprofonda col peso della sua bassezza: quel Tartaro in cui il cantore per eccellenza si avventura per sottrarre l’amata alle ombre di una morte prematura, giunta proprio alla vigilia delle nozze a causa del morso di una vipera.



“Anche Euridice sarà vostra – intona Orfeo al cospetto di Ade e Persefone nella versione del mito che Ovidio ci consegna attraverso il libro X de Le Metamorfosi – quando sino in fondo avrà compiuto / il tempo che le spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono. / Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo: / io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!”. Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira, / le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare / l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita, / gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna / le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno. / Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta / si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera”.



L’ordine del cosmo viene sovvertito, la ferocia degli dèi inferi ammansita, la morte e il Fato apparentemente sconfitti. Le tenebre diradate. Almeno fino a quando, durante la risalita, un eccesso d’amore separa per l’eternità gli sfortunati amanti: contravvenendo alla prescrizione che gli era stata imposta, Orfeo si volta. Euridice sprofonda, mentre la pallida eco del suo addio si arrampica lungo le pareti dell’Averno. “Morendo di nuovo – sottolinea ancora Ovidio con malinconica dolcezza – non ebbe parole di rimprovero (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?)”.

Non sorprende che le peripezie dei due amanti siano ben presto assurte ad archetipo dalla magnetica potenza (basti pensare che già Ovidio aveva tratto la sua materia narrativa da fonti ben più ancestrali). Simbolo, tra le altre cose, di una commovente purezza romantica, di una dedizione reciproca così viscerale da rivelarsi persino nociva, ma non per questo meno degna di emulazione. Non c’è espressione letteraria del sentimento amoroso che non abbia fatto i conti con la grandezza dell’abbraccio mancato tra Orfeo ed Euridice e che non abbia, più o meno direttamente, scelto di misurarsi con la sua universalità.

Il mito del cantore del Ròdope e della ninfa ferita al tallone, infatti, è certamente uno di quelli andati incontro al maggior numero di citazioni, se non di vere e proprie riscritture. Potrebbe sorprendere, piuttosto, la parabola evolutiva intrapresa da questo archetipo. Per secoli, l’istante mozzafiato in cui Orfeo sancisce la definitiva scomparsa della compagna ha fatto arrovellare eccelsi letterati. Ne è derivato un florilegio di interpretazioni inevitabilmente aderenti al tempo della loro maturazione. Col mutare della società, del costume, della concezione e del ruolo del poeta, insomma, il mito originario ha assunto una colorazione a tratti inquietante, alienante.

A cavallo tra l’800 e il ‘900, per esempio, già Rainer Maria Rilke tratteggiava i contorni dell’incontro nell’Oltretomba alla stregua di una ipocrita messa in scena. Nella versione che il poeta austriaco ha affidato a Orfeo. Euridice. Hermes (1904), non c’è alcuna tensione, alcuna passione in quel momentaneo ricongiungimento. Regna solo una sottile indifferenza, una rassegnazione di fondo che avvolge l’incedere meccanico dei due protagonisti. La comunicazione è ridotta all’osso, gli sguardi trasparenti come vetro. Come se i due sapessero di non appartenersi più. È solo con l’intervento del messaggero degli dèi che Euridice si accorge di sprofondare a causa del peccato commesso dall’amato. “Orfeo si è voltato” la incalza Ermes. “Chi?” risponde la fanciulla prima di svanire nelle profondità dell’oblio. È il trionfo dell’apatia. L’impossibilità, perfino per l’amore che in vita è stato il più grande, di imporsi sull’ingiustizia degli accadimenti.

E che dire del filone di revisioni a cui appartiene la tagliente lirica Eurydice (1917) della poetessa statunitense Hilda Doolittle, nella quale la ninfa racconta in prima persona il dramma della doppia morte? Nella sua accorata rievocazione, anzi, comincia a fare capolino un dubbio amletico, contorto, controverso, un gravoso sospetto: è stato solo l’istinto a provocare la fatale reazione di Orfeo?

“Così tu mi hai spazzata indietro – è l’incipit del componimento – io che avrei potuto camminare con le anime dei vivi / sulla terra, / io che avrei potuto dormire tra i fiori dei vivi / almeno; / così per la tua arroganza / e la tua spietatezza / io sono spazzata indietro / dove i morti licheni fanno sgocciolare / morta bragia su muschio di cenere”.

Ma è con Gesualdo Bufalino che la trasmutazione della materia mitica si conclude in maniera radicale. Che l’indizio si fa prova. Che il sospetto si traveste da condanna. Ne Il ritorno di Euridice (1986), lo scrittore siciliano inchioda alla pagina il proprio lettore attraverso il monologo sconsolato di una donna consapevole, che, nella fosca solitudine dello Stige, rievoca con rancore l’episodio della separazione.

Non c’è indugio nei suoi pensieri: “Le anime stavano zitte, appiccicate fra loro come nottole di caverna. Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi”. Allora Euridice trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta. A cui si aggiunge la beffarda considerazione dello stesso Bufalino: “L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava ‘Che farò senza Euridice?’. E non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta”.

L’arcano è così svelato:  Orfeo, da poeta-eroe dell’età dell’oro, è diventato l’incarnazione della modernità, della caccia senza scrupoli al consenso. Del fine che giustifica i mezzi nel tentativo di recuperare l’ispirazione latente.

E quanto somiglia, questo spietato calcolo, alla consuetudine del nostro vivere, in cui lo spettacolo è tale solo se si nutre del dolore, se mette in piazza la sofferenza senza riguardo alcuno per la dignità. Divorati da quello stesso tempo che ne ha sancito l’immortalità, Orfeo e la sua storia si imbruttiscono, si inaridiscono. Da personaggio etereo a personaggio di cui siamo inconsapevoli autori. Da mito dell’incanto a mito della meschinità. Da mito del sogno a mito della realtà.

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