Le vie della letteratura sono infinite. Si snodano sinuose e sotterranee lungo il corso della storia, intrecciate come le mani degli amanti più disperati, per poi affiorare sulla superficie del nostro cuore a mostrare il loro impareggiabile fascino. Sono orizzonti e cimeli della memoria, luci segnaletiche intermittenti che abbagliano e lasciano una scia una volta esaurite, stralci di anima che gli autori depositano su un verso o su un personaggio perché travasino nella genesi di altre opere.



Non è appena un mero gusto per il citazionismo, questo continuo e fecondo dialogo tra penne finissime, né tantomeno una compiaciuta messa alla prova dei lettori più avveduti: piuttosto, è una condivisione spirituale e sentimentale, l’eterno e multiforme riproporsi dei dilemmi che ci rendono umani, la sospensione del passato che anela al suo completamento nel futuro.



Basti pensare ai turbamenti shakespeariani di Melville e del suo Capitano Achab, alla tragica e peccaminosa vicenda di Faust che Goethe ereditò da Marlowe, o ancora alla passione proustiana per Dostoevskij, modello insostituibile che non perdeva occasione di menzionare nei suoi scritti.

Anche nel contesto della letteratura italiana non mancano simili tracce convergenti. Ma ce n’è una, su tutte, che ha lasciato il solco più profondo. Una linea poetica che trova le sue radici nel lontano afflato lirico di Francesco Petrarca – nella prima metà del XIV secolo – e che conduce fino alla voce strozzata di Eugenio Montale, passando per Giacomo Leopardi e Giuseppe Ungaretti.



Sì, tutto cominciò con il cantore di Laura. Con l’osservazione struggente e analitica dei gesti sprezzanti di lei, con l’inno a una bellezza tanto ammaliante quanto distruttiva, con l’insondabile dilemma tra obbligo morale e carnalità dell’istinto. Si dibatte e si arrovella, Petrarca, come un animale straziato da una cattività prolungata: l’amore lo esalta ma contestualmente lo consuma, il suo dissidio occupa tutta la sua vita mentre il resto sembra perdere importanza, dissolversi. Ferito da una realtà che non è quella sperata, tradito dal sogno di una giovinezza che ha perso la sua maschera di seduzione.

Impossibile non pensare immediatamente alle amare confessioni leopardiane circa le promesse inadempiute dalla natura di cui i suoi versi sono costellati. È noto, del resto, che negli anni della sua formazione il conte di Recanati abbia letto e commentato – con un’arguzia che ancora oggi supera gran parte delle discettazioni contemporanee – il “Canzoniere” di Petrarca e che il suo contenuto, unitamente al suo stile, sia stata per lui una delle principali fonti di ispirazione.

Questa connessione tanto evidente, tuttavia, non può essere ridotta a una semplice consonanza di pensiero, a una comune visione negativa della vita: Petrarca e Leopardi condividono ben più che il medesimo tono elegiaco.

Il merito di aver scoperto cosa si celasse tra le pieghe di una sommaria apparenza appartiene interamente a Ungaretti, grande estimatore dei suoi predecessori. Fu proprio un verso della massima raccolta petrarchesca a favorire l’intuizione del poeta nativo di Alessandria d’Egitto. Nel sonetto XVIII, infatti, in seguito alla miracolosa apparizione della donna amata, Petrarca afferma: «et m’è rimasa nel pensier la luce». Così Ungaretti commenta questo passaggio: «E mi domando se ci fu mai un altro artista che ebbe tanta scaltrezza stupefacente da farci sentire […] la presenza materiale e la presenza del ricordo così fuse l’una nell’altra, eppure così separate, e farci sentire che il passaggio dall’uno all’altra è brevissimo; breve, e possiamo averne strazio, ma è la condizione umana».

Una vera epifania prende forma dinanzi agli occhi di Ungaretti, attraverso i quali possiamo finalmente scorgere il vero fil rouge che unisce tutti questi cuori ricolmi di speranze: la percezione di un’esistenza che non si piega alla minaccia del nulla. Di fronte all’assordante silenzio della mancanza, Petrarca e Leopardi oppongono l’appassionata ricerca della presenza; al fragoroso disgregarsi delle contingenze l’eco di un’eternità a tratti inarrivabile, ma mai così lontana da celarsi al richiamo del loro desiderio.

Una comunione quasi astrale che si concretizza in una delle liriche più significative della produzione pisano-recanatese di Leopardi: quel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” alla fine del quale – in coda all’elencazione degli affanni che affliggono l’uomo inerme dinanzi alla cocente indifferenza della natura – leggiamo: «Forse s’avesse io l’ale / da volar su le nubi / e noverar le stelle ad una ad una, / o come il tuono errar di giogo in giogo, / più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna».

Ecco l’attimo decisivo, l’attimo che vale e ricompensa le interminabili stagioni del travaglio: lo spazio dell’infinito che attende e attrae, che riempie di sé le attese umane e le sottrae al deturpamento del mondo. Le stelle (da “noverare”, altro termine che Leopardi riceve dalla lezione petrarchesca) simbolo dello sguardo che oltrepassa il limite. Della possibilità di armonica soluzione, di quiete, di senso da dare alla propria esperienza umana, per l’animo frammentato di Petrarca; di guardare all’infelicità, alla morte come prezzo da pagare per quel barlume di pienezza per Leopardi; di trovare in noi la fiamma che rischiara le nostre oscurità per Ungaretti, il poeta del porto sepolto continuamente alla ricerca di una parola vergine e unica, temprata dalla tempesta della sofferenza, e per questo capace di rinascere come inno alla vita.

Sempre a Ungaretti, questa volta in riferimento a Leopardi, appartiene una definizione memorabile a tal proposito: parlando degli ultimi versi di “A Silvia”, in cui apparentemente si celebra l’ultimo saluto alla fanciulla che volge la propria mano verso una fredda tomba, il poeta di Alessandria la definisce «corpo presente». Perché anche il ricordo della speranza, finché rimane vivo, riscalda il grigiore della fine.

E Montale? L’autore di “Ossi di seppia” è stato definito da molti il poeta della disperazione. Un giudizio che tiene conto certamente della temperie culturale precedente e successiva alla Seconda guerra mondiale, e che tenta di dare un nome ai suoi crucci esistenziali, ma nel complesso piuttosto ingeneroso. Perché, in realtà, Montale è il poeta della luce: i termini poetici afferenti a questo campo semantico di cui abbiamo ricostruito l’origine abbondano sia in “Satura” che nella sua raccolta più celebre. Da cui, in conclusione, citiamo una delle liriche che maggiormente è stata additata come manifesto del pessimismo montaliano e che, invece, ci svela una verità sorprendente. Così scrive il poeta in “Spesso il male di vivere ho incontrato”: «Spesso il male di vivere ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato. / Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».

Le altezze siderali del falco sono le stesse sognate dal pastore leopardiano. Sono uno squarcio nello squallore. Sono la speranza che Montale ha sempre coltivato in silenzio. Come quella volta in cui gli chiesero perché non avesse scritto del Fascismo durante il Ventennio e rispose che era più interessato a inseguire il suo personale luccichio. Gli eventi passano. La luce resta.