“Una vita senza ricerca non è vivibile per un uomo”: sono le parole di Socrate alla fine dell’autodifesa, prima della condanna. In fondo per gli Ateniesi sarebbe stato preferibile liberarsi di quest’uomo, con le sue continue domande sulla virtù e sul bene, imponendogli semplicemente di tacere ed evitando così l’imbarazzo di una morte ingombrante. Socrate rifiuta l’alternativa alla condanna, perché l’unica vita possibile per un uomo è una vita che ricerca, che indaga, che pone e si pone domande.
L’indagare, exetàzein, il ricercare, zetéin, sono costanti stimoli per l’uomo antico, il filosofo, lo scienziato, lo storico, il poeta. L’oggetto della ricerca può essere l’arché, l’inizio di tutta la realtà fisica indagato dai filosofi ionici, o “il che cosa è l’essere” della Metafisica aristotelica; possono essere i fenomeni scientifici o i fatti della storia degli uomini, le loro cause, le loro responsabilità. Insomma, la ricerca si rivolge all’aletheia, la parola greca che traduciamo con “verità” ma che etimologicamente significa “svelamento”. Al fondo rimangono però sempre le domande ultime: sul senso della vita, il suo scopo, il summum bonum, o sul rapporto con qualcosa o qualcuno al di fuori dell’ambito fisico e umano.
La ricerca dell’essenziale, che il tema del Meeting 2024 ci propone, non può che coincidere con queste domande (rimando, per un’ampia raccolta di testi antichi sul tema preparati in occasione del Meeting, al sito di Zetesis, sotto la voce Cercare l’essenziale). Le risposte diventano difficili. Quale sia il sommo bene, che cosa si debba chiedere alla vita per raggiungere la pienezza, comporta risposte diverse, la conoscenza, la saggezza, la virtù, l’amore, la tranquillità, l’agiatezza, la realizzazione di sé; spesso a queste risposte si associa una rinuncia, perché il senso del limite è sempre presente nell’uomo antico: tutto non si può chiedere, è meglio accontentarsi. Per chi non si accontenta c’è spesso ansia e dolore, perché la realtà umana non è comprensibile, e il rapporto con un’altra realtà è oscura e deludente: “Tutta la vita degli uomini è dolorosa, e non vi è requie dagli affanni. Ma qualunque altra cosa sia più cara del vivere, l’oscurità la copre avvolgendola di nubi. Così ci sembra di essere follemente innamorati di ciò che splende sulla terra, perché non abbiamo esperienza di un’altra vita e non c’è rivelazione di quanto è sotto terra” commenta Euripide, e ancora: “Il pensiero degli dèi porta via ogni dolore ma, benché io nutra la speranza di capire, vengo meno quando scruto i casi dei mortali”.
Il rischio, di fronte a questa delusione, è di giungere a rifiutare di indagare, di sapere: è la posizione di Edipo al termine dell’Edipo Re, dopo una vita passata a cercare di conoscere: travolto da decisioni divine incomprensibili, per cui ogni sua indagine ha portato solo sciagura, si acceca precludendosi la vista che è fonte di conoscenza, e rifiuta di indagare ancora il volere degli dèi: “il mio destino, dovunque andrà, se ne vada”. Non è facile per l’uomo pagano, che non ha avuto rivelazione né conosciuto Dio faccia a faccia, concepire un rapporto buono con un Tu al di fuori del noi degli uomini.
Seneca lo rinvia al futuro, in una visione vicina al panteismo stoico: “Un giorno ti si sveleranno i misteri della natura, si disperderà questa tenebra e una chiara luce ti investirà da ogni parte. Immaginati quanto sarà grande lo splendore prodotto dal concorrere della luce di tanti astri! Nessuna ombra turberà il sereno: splenderà egualmente ogni lato del cielo. Allora dirai d’essere vissuto nelle tenebre, quando nella pienezza del tuo essere contemplerai nella sua pienezza la luce che ora vedi solo oscuramente per le ristrettissime vie degli occhi e che tuttavia ammiri pur già di lontano: ma come ti apparirà la luce divina quando la vedrai nella sua propria sede!”.
Per Apuleio, e per quanti altri aderiscono alle religioni misteriche, tale rapporto implica una superiore, segreta conoscenza: “Le tue divine sembianze, ora che le ho accolte nell’intimo segreto del mio cuore, le custodirò in eterno e sempre le contemplerò nell’animo mio”. Ma vi è un’altra via, che nasce dal cuore e porta a intuire un dio, o degli dèi, di cui fidarsi, a volte in seguito a un evento positivo, o a un pericolo già superato, o a una promessa. Lo vediamo in Virgilio: “O compagni che avete subìto eventi più gravi, un dio porrà fine anche a questi”. O in Orazio: “Affida tutto il resto agli dèi, che intanto hanno abbattuto i venti…”; o sempre in Orazio: “Non bisogna disperare… Infatti Apollo degno di fede ha promesso…”.
Ancora un’altra via è quella suggerita da san Paolo nel discorso all’Areopago di Atene: giungere a Dio attraverso la contemplazione del creato, via che già autori pagani hanno percorso, come il poeta di cui l’apostolo cita un verso: “Di Lui infatti siamo anche la stirpe”. Ma il passaggio dall’intuizione di un Dio autore dell’universo e padre degli uomini all’accettazione di un Dio divenuto uomo, morto e risorto non è facile: il pubblico dell’Areopago, salvo pochissimi, rifiuta un annuncio che non è quello atteso. Ed è Eraclito a ricordarci l’atteggiamento di attesa che deve accompagnare ogni ricerca: “Se uno non spera l’insperabile non lo troverà, perché è difficile da trovare e impervio”.
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