La poesia, soprattutto dialettale, anche se i grandi editori l’hanno messa fuori catalogo, sta conoscendo una stagione di grande vivacità in Italia, in particolare in una terra come la Romagna, da sempre patria di grandi poeti, non soltanto dialettali. Come non ricordare, ad esempio, limitandoci da metà Ottocento all’inizio di questo millennio, Olindo Guerrini-Lorenzo Stecchetti (1845-1916), Giovanni Pascoli (1855-1912), Dino Campana (1885-1932), Marino Moretti (1885-1979), Aldo Spallicci (1886-1973), Tito Balestra (1923-1976), Tonino Guerra (1920-2012), Raffaello Baldini (1924-2005)… Romagna, patria anche di riviste, circoli, cenacoli e concorsi letterari.



Senza soffermarci sul periodo “classico”, quello compreso fra la prima metà del Novecento e i primi anni del secondo dopoguerra, per intenderci, peraltro ben trattato fin dalla prima antologia della Poesia dialettale del Novecento pubblicata nel 1952 e curata da Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Mario Dell’Arco (1905-1996), e comprendente tutte le aree dialettali italiane, romagnola compresa, va ricordato quello successivo e contemporaneo.



Si tratta del periodo “tardo-dialettale”, comprendente gli autori nati negli anni 50-60, come documentano taluni libri di Franco Brevini (1951): Poeti dialettali del Novecento, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo e i tre volumi de La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento, ma anche le antologie Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo 900 in Romagna, curata da Luciano Benini Sforza e Nevio Spadoni, e D’un sangue più vivo. Poeti romagnoli del Novecento, curata sempre da quest’ultimo e da Gianfranco Lauretano. E senza dimenticare il libro poetico di Davide Rondoni, non proprio di poesie (anche se ne contiene non poche) sulla romagnolità: Quasi un paradiso. Viaggio in Romagna la terra del pensiero simpatico.



I poeti di questo periodo, pur ancora dialettofoni, ma cresciuti in buona parte italofoni, hanno iniziato ad usare il codice dialettale romagnolo, minoritario in poesia, per riflettere sulla propria identità. A onor del vero va ricordato che, secondo il maggior studioso mondiale della lingua romagnola, il linguista austriaco Friedrich Josef Maria Schürr (1888-1980), il romagnolo è una lingua vera, una “lingua romanza”, perdente come altre di altre nazioni, ma con la dignità appunto di lingua, purtroppo non ancora riconosciuta come tale, forse anche perché ci troviamo di fronte a più dialetti romagnoli, come dimostrano i poeti che scrivono in romagnolo provenienti dalle diverse aree della Romagna. Ma non ci interessa questo terreno minato, per cui torniamo ai poeti dal secondo Novecento ad oggi, ovviamente senza alcuna pretesa di essere esaustivi, al contrario…

Dunque, abbandonati il colore locale e il ritardo culturale presente in gran parte della produzione precedente, gli autori romagnoli nati durante il boom economico hanno cominciato a scrivere attingendo a quelli che Gianfranco Contini (1912-1990), uno dei maggiori esponenti della critica ufficiale di quegli anni, indicava come i “valori materici della loro propria parlata”, e tentando di superare la repulsione verso il dialetto, vuoi perché utilizzato o relegato ad ambiti prettamente folcloristici, vuoi perché usato come bandiera di rivendicazioni localistiche. Il lavoro sulla “identità linguistica”, come la chiamava Giovanni Nadiani (1954-2016), uno dei più importanti poeti romagnoli nati in quel periodo, prematuramente scomparso, si scontra però con “un duplice assurdo ostracismo: da un parte in senso passatisticamente localistico, dall’altra illuministicamente snobbante”.

Quei giovani autori però non si scoraggiarono. Certo, sono loro di conforto i grandi poeti degli anni precedenti: il citato santarcangiolese Tonino Guerra, ma soprattutto il suo concittadino Gianni Fucci (1928-2019) e gli altri autori della cosiddetta “scuola di Santarcangelo di Romagna” (oltre a loro e al già citato Baldini, letto e noto anche ai non addetti ai lavori, e non soltanto in Romagna, anche per la “riduzione” teatrale dei suoi célineschi ed inclusivi monologhi portati sulle scene da quel grande attore istrionico romagnolo scomparso di recente che è stato Ivano Marescotti (1946-2023), non possono non essere ricordati Nino Pedretti (1923-1981) e Giuliana Rocchi (1922-1996), ma anche il longianese Sante Pedrelli (1924-2017), i cesenati Ciro Pedrelli e Walter Galli (1921-2002), il lughese Lino Guerra, il cervese Tolmino Baldassari (1927-2010), il cotignolese Nettore Neri (1883-1970), il ravennate Giordano Mazzavillani (1911-1976)…

Da tenere a mente è soprattutto la strada che tentano. I poeti romagnoli – in primis Giuseppe Bellosi (1954), Nevio Spadoni (1949), il più volte citato Nadiani e Gianfranco Miro Gori (1951) –, infatti, si ritrovano fra loro e con altri poeti “neodialettali”, anche di altre regioni (ad esempio, il marchigiano Franco Scataglini (1930-1994), il lombardoligure Franco Loi (1930-2021), il friulano Gian Mario Villalta (1959), il lucano Rocco Scotellaro (1923-1953)…), cercano collegamenti, inventano riviste, propongono letture e festival poetici, ma soprattutto scrivono. In romagnolo. Rivitalizzano parole, ne inventano altre, contaminano il dialetto con altri codici, compreso l’italiano, il quale viene a sua volta utilizzato come lingua poetica autonoma. Tutto ciò con l’intento di comunicare sé, ciò che è vero per sé e ciò che scoprono nella realtà.

(1 – continua)

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