Medicina e letteratura vanno spesso a braccetto: non solo alcuni fra i più grandi scrittori furono medici (pensiamo a Cechov, Bulgakov o anche a Céline, laureato in medicina con una tesi su Ignác Semmelweis, lo scopritore della febbre puerperale); ma non è nemmeno raro, viceversa, scoprire medici che sono anche cultori di letteratura. Mauro Di Napoli (Roma 1947) è uno di questi: specialista in medicina interna e in malattie dell’apparato digerente nel Policlinico Umberto I e poi nell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, offre un’interessante panoramica di come la letteratura abbia affrontato gli argomenti che solitamente sono ritenuti appannaggio dei medici: con La malattia e la morte raccontate dai grandi della letteratura (Armando, Roma 2019) ha sviluppato la descrizione di alcuni quadri clinici presenti in romanzi o in opere letterarie di altro genere, sotto il duplice segno di argomenti sempre attuali (come la malattia, il fine vita, le terapie palliative, etc.), ma anche esaminando come gli scrittori abbiano presentato il rapporto medico-paziente.
Del resto, come dice l’autore nella prefazione, “il medico è uno scienziato e un artista: uno scienziato perché deve conoscere bene la materia che tratta, la medicina, le sue regole, le sue proprietà, le sue leggi; un artista perché deve applicare tutto ciò che ha potuto studiare e che conosce in modo preciso, al corpo umano che è quanto di più variabile e complesso esista. D’altra parte quando compie il suo lavoro, che è quello di curare il malato, deve agire secondo scienza e coscienza, in base alle nozioni scientifiche che fanno parte del suo bagaglio culturale, ma adattando la scienza al caso particolare, il malato, e mettendoci quel pizzico di estro, di ispirazione e di arte che è necessario nel caso specifico”. E la capacità di osservazione, di attenzione al particolare, spesso rivelatore, che deve essere correttamente contestualizzato, è anch’essa una delle caratteristiche che accomunano il medico allo scrittore.
Sicuramente, “vi sono esposizioni letterarie di quadri morbosi insuperabili per la loro capacità di rappresentare la vicenda clinica, talvolta drammatica”: è il caso, per esempio, delle potenti descrizioni di un flagello antico come la peste, che troviamo per esempio nel Decameron, in cui Boccaccio non solo dà una descrizione precisa ed essenziale relativamente alle manifestazioni esteriori. Boccaccio, infatti, si rivela molto acuto anche nelle considerazioni relative all’incapacità da parte delle strutture sanitarie e dei medici di predisporre una qualche terapia e di evitare il dilagare del contagio. Già Tucidide, però, come è noto, nella sua opera, la Guerra del Peloponneso (Libro II, cap. 47-49) descrive la peste, ma per un motivo puramente storico: avendo egli sperimentato la malattia, vuole che la sua opera risulti utile ai posteri, e pertanto racconta il flagello nel modo più realistico possibile. Pur nella ammissione sincera dell’ignoranza sulle cause della malattia (fattore causale) e sulle condizioni che ne favoriscono l’insorgenza (concause), si notano comunque in Tucidide i primi abbozzi di una valutazione di tipo epidemiologico (il contagio inizia fra gli abitanti del porto, dove le possibilità di contatto sono più elevate). Il ragionamento, cioè, è scientifico, ma si ferma dove le limitate conoscenze del tempo impediscono di proseguire. Anche Lucrezio e Manzoni, com’è noto, si soffermeranno con dovizia di particolari sulla descrizione della peste.
Ma sono anche altre le malattie entrate, per così dire, nel patrimonio delle conoscenze letterarie dei secoli passati: pensiamo al cosiddetto “morbo sacro”, l’epilessia; alla sifilide, descritta per la prima volta da Marcello Cumano, medico militare nella battaglia di Fornovo (6 luglio 1475), tra i soldati mercenari dell’esercito di Carlo VIII di Francia. E, più di tutto, pensiamo alla tubercolosi.
Questa malattia, che ha colpito l’immaginazione degli scrittori e che è stata descritta in modo ampio ed esaustivo da molti, con il nome di “mal sottile” o di “mal di petto” costituì il morbo per eccellenza del XIX secolo, colpendo e portando alla morte molti personaggi illustri, ma anche tantissimi uomini e donne rimasti oscuri: addirittura, si calcola che nel 1815 il 25% dei decessi in Inghilterra fosse dovuto alla tubercolosi; un secolo dopo, nel 1916, in Francia, un buon 16% delle morti era ancora dovuto alla tisi: una vera strage.
Se poi passiamo ad analizzare come la letteratura abbia trattato il tema della malattia mortale, troviamo esempi di rara potenza: dal Tolstoj della Morte di Iván Il’ič agli italiani Verga (che ha descritto in modo impietoso e icastico la malattia e la morte desolata di Mastro Don Gesualdo nell’omonimo romanzo) e Buzzati, che ha saputo forse a livelli ineguagliabili trattare il tema dell’incomunicabilità fra paziente e medico, delineando nel racconto Sette piani un quadro di ansia crescente, incertezza, autoinganno e mancanza di trasparenza nella comunicazione fra malato e dottori.
E non bisogna dimenticare Thomas Mann, nei cui grandi romanzi i medici hanno un ruolo di primaria importanza: ne I Buddenbrook, per esempio, il dottor Langhals si confronta con i sintomi della malattia (il tifo), ma anche con il malato, tematizzando, in modo molto moderno, l’argomento delle cure palliative e dell’assistenza a un paziente terminale, enormemente compromesso, che necessita di un’assistenza non solo farmacologica, ma anche fisica, psicologica, etica e religiosa.
La morte a Venezia affronta invece la descrizione del colera, con osservazioni anche oggi valide sull’origine e la diffusione, oltre che sulla difficoltà a eseguire l’adeguata profilassi. Ma mai quanto ne La montagna incantata viene affrontato il tema della malattia e della morte e il rapporto fra malato e medico: egli, in generale, non è mai una figura professionale guardata con troppa simpatia nell’opera di Mann; nella Montagna incantata, però, addirittura, il medico in certi punti del romanzo sembra un imbonitore che reclamizza i suoi prodotti, che “non sta parlando con il paziente, ma sta semplicemente giustificando il suo comportamento in modo banale e scorretto e il paziente ‘ringrazia cordialmente’ non potendo fare altro che fidarsi” (p. 107).
Quale contrasto con il rapporto fra l’illustre paziente, nientemeno che l’imperatore, e il suo medico personale Ermogene con cui si aprono le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: qui, la semeiotica della visita medica è proposta dal paziente stesso, che parlando in prima persona mette in rilievo, oltre al suo imbarazzo a mettere a nudo il proprio corpo vecchio e dolorante, anche il suo rapporto con il medico curante: c’è fiducia, ma non cieca, bensì razionale; in fondo è quello che provano un po’ tutti, specialmente nei momenti di sconforto, quando capiscono che la malattia è davvero incurabile e avvertono un senso di fastidio, nei confronti di chi, medico o non medico, assuma atteggiamenti falsi di distacco o facilmente consolatori.
Anche nel Nuovo Testamento compare un medico: san Luca, che però è ricordato come apostolo, come evangelista e come pittore, ma non per l’attività di medico, eccetto che nella Lettera di Paolo ai Colossesi (4, 14); e solo una volta nei Vangeli si parla di medico, ma con un significato allegorico: “Medice, cura te ipsum”, non per nulla nel Vangelo di Luca (4, 23), espressione usata per condannare il comportamento di chi disapprova i difetti altrui senza guardare ai propri, un concetto che si ritrova anche nella metafora della pagliuzza nell’occhio del vicino e nella trave nel nostro (sempre Luca, 6, 41). Il detto è rimasto a monito di chi si erge a severo giudice degli altri; per il medico, poi, è necessario un lungo cammino per esprimere un giudizio, e lo deve fare in maniera equilibrata. Tale giudizio, che poi è la diagnosi, deve arrivare in maniera serena, semplice, senza esagerazioni né in difetto né in eccesso, come riporta la frase scritta sul frontone del tempio di Delfi: medén agan, “niente di troppo, niente esagerazioni”: l’invito a conoscere le proprie capacità e i propri limiti diventa quindi un impegno deontologico, quasi uno stile di vita.