C’è un topos diffuso sia in molti testi letterari sia nelle pagine bibliche, ed è definito con il termine latino agnitio. Si tratta di situazioni in cui una persona viene riconosciuta (agnitio significa appunto “riconoscimento”) nella sua vera identità, dando luogo così all’inserimento lieto nella famiglia, nella comunità o nel regno.



Il caso più diffuso è quello del bambino perduto, rapito, abbandonato, ceduto nella prima infanzia e ricomparso già adulto: poiché il riconoscerlo dalla fisionomia è difficile o impossibile, sono necessari segni: segni fisici (ad esempio una voglia o qualche caratteristica particolare), oggetti (fasce, medaglie,  piccole cose lasciate come ricordo), o gesti (l’estrazione della spada nella roccia da parte di Artù, o dei lasciti di Egeo da sotto ila masso da parte di Teseo).



Ci limitiamo a scegliere uno dei moltissimi esempi, quasi l’archetipo di tante imitazioni di ogni epoca. Nella tragedia Ione di Euripide il giovane protagonista, un trovatello allevato dalla sacerdotessa di Delfi, riceve da lei il cestino con i piccoli oggetti di riconoscimento lasciati dalla madre, costretta ad abbandonarlo dopo la violenza di Apollo; mentre li estrae e li enumera, la madre, che è venuta a Delfi a rimproverare il dio per la perdita del bambino e la sterilità che affligge le sue nozze, riconosce i vestitini con i suoi ricami malfatti di ragazzina, i gioiellini della sua famiglia deposti sul neonato per un’impossibile speranza.



Ma c’è un tipo di agnitio più complesso, quello dell’adulto che riappare dopo un certo tempo e deve essere riconosciuto e riaccolto. In questi casi il narratore si pone un problema: che cosa rende difficile il riconoscimento di una persona ben nota? Perché è necessario porre in atto delle modalità di agnitio invece dell’immediata accoglienza?

Un primo esempio è quello di Odisseo, tornato in patria dopo vent’anni di assenza, insufficienti ad alterarne l’aspetto e a renderlo irriconoscibile. È quindi necessario l’intervento della dea Atena che lo trasforma in vecchio mendicante, in modo che possa penetrare nella reggia e compiere la sua vendetta. Ma Omero rende più vari e complessi sia l’inganno sia l’agnitio: al figlio che non potrebbe, data la giovane età, ricordarne l’aspetto, Atena rivela comunque Odisseo nella sua realtà, perché veda in lui l’eroe e non il miserabile viandante; ma subentra nel giovane un’impossibilità psicologica di riconoscimento, il timore del miracolo e la paura della delusione, per cui è necessaria la persuasione prudente e decisa del padre perché accetti il ritorno insperato e l’aiuto divino; una simile impossibilità psicologica sarà di Penelope, che pure rivedrà il marito nella sua realtà e nella sua vittoria: in quell’occasione soltanto il rivelarsi di un segreto condiviso dalla coppia porterà al riconoscimento. Il più tipico caso di agnitio riguarda la schiava, che riconosce da una cicatrice il padrone pur trasformato; e possiamo aggiungere il riconoscimento istintivo del vecchio cane fedele, che non ha bisogno di ritrovare l’aspetto noto.

Un’altra situazione l’incontriamo nella tragedia Elena di Euripide: l’autore accoglie la variante secondo cui la donna è sempre rimasta in Egitto, mentre a Troia con Paride è giunto solo il suo eidolon, una sorta di fantasma. Terminata la guerra, Menelao fa scalo in Egitto con la falsa moglie e rivedendo la vera Elena si rifiuta di riconoscerla: la convinzione di avere con sé la sposa gli impedisce di accettare per autentica la donna che i suoi occhi gli mostrano, con l’aggiunta psicologica del rifiuto di aver sprecato dieci anni di vita e aver perduto tanti compagni per un fantasma. Sarà necessario il racconto di un miracolo, la sparizione in cielo dell’eidolon, per riunire i due sposi.

In un dramma del poeta indiano Kalidasa l’omonima protagonista, Śakuntala, non viene riconosciuta dal marito,  da cui si reca con il loro bambino, perché vittima di una maledizione. In questo caso il segno che permette l’agnitio è un anello: tipica situazione che in vario modo ritroviamo anche in molte fiabe, i cui protagonisti, e più spesso protagoniste, sono trasformati, o travestiti, o celati in condizioni oscure, e si fanno riconoscere per un oggetto, cui si aggiunge a volte un intervento magico, rendendo possibile un lieto fine insperato.

Per quanto riguarda il testo biblico, ci limitiamo alle apparizioni di Gesù risorto. “I  loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” dice san Luca dei discepoli di Emmaus. La certezza della morte di Cristo e della fine della speranza impedisce a Cleopa e all’amico di capire che il compagno di strada è Gesù stesso, e neppure l’ardore del cuore alle sue spiegazioni basta a farlo riconoscere. Ci vuole il segno del pane spezzato e condiviso perché recuperino consapevolezza, fede e desiderio di testimonianza: gli occhi si aprono, il cuore si rivela. Così per ciascuno degli altri discepoli  l’incredulità di fronte ad un miracolo così grande e così corrispondente al desiderio viene superata con dei segni offerti: per le donne gli angeli al sepolcro, per Maria il sentirsi chiamata per nome, per gli apostoli il vederlo mangiare, per Tommaso il poterlo toccare. Quando Giovanni dalla barca grida ai compagni “È il Signore” o quando Tommaso, vinto nella sua incredulità, esclama “Mio Signore e mio Dio”, il riconoscimento diviene esplicito e comunicabile: a noi anzitutto, che non abbiamo visto.

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