C’è un paradosso che riguarda il linguaggio. È una facoltà universale che appartiene a tutti gli uomini indipendentemente dalla cultura in cui nascono e che si manifesta in tutti i bambini a qualunque latitudine crescano, più o meno nello stesso momento dello sviluppo. Le lingue però sono migliaia, dunque la diversità caratterizza in maniera decisamente marcata l’uso di questa facoltà. Niente di più universale, ma che si manifesta nella diversità più estrema. Una diversità che talvolta si presenta come incommensurabilità, come impossibilità di far dialogare le lingue.



Il paradosso di un linguaggio universale che però si manifesta nella diversità estrema è stato uno dei grandi temi di riflessione di buona parte della storia del pensiero sul linguaggio. Alla fine del Settecento, alle origini della linguistica scientifica, Wilhelm von Humboldt, uno dei padri della nuova disciplina, era partito da quel paradosso per sviluppare la propria filosofia del linguaggio. Un paradosso che tocca inevitabilmente il tradurre perché, come ricorda Paul Ricoeur, “suggerisce l’idea di una eterogeneità radicale che dovrebbe a priori rendere impossibile la traduzione” (P. Ricoeur, Tradurre l’intraducibile).



Per Humboldt il linguaggio dà una struttura al mondo (Wilhelm von Humboldt, La diversità delle lingue). È da questa prospettiva che il linguaggio è considerato una facoltà universale, organo formativo del pensiero. Il pensiero infatti si manifesta nel discorso, divenendo così percepibile ai sensi, altrimenti evaporerebbe senza quasi lasciare traccia. La parola non solo raffigura un oggetto, ma mette in moto un processo attraverso il quale parola e oggetto acquistano l’una la natura dell’altro e viceversa.

Questa facoltà per non rimanere pura facoltà deve manifestarsi nelle lingue storiche, che sono il patrimonio di una comunità costruitosi nel corso di generazioni. Il pensiero allora non è in rapporto solo con il linguaggio ma, inevitabilmente, anche con le singole lingue, cioè le forme di attualizzazione della facoltà generale. Qui sta la relazione fra l’universalità e la diversità del linguaggio: il linguaggio è l’organo del pensiero, ma diventa realtà solo nelle diverse lingue. Queste non saranno semplicemente un modo di descrivere una realtà già data, ma costituiscono lo strumento di scoperta di una realtà che altrimenti non apparirebbe o apparirebbe diversa. In altri termini, la diversità fra le lingue risiede nella diversità delle visioni del mondo che esse costruiscono.



Humboldt scrive che le lingue non sono dei mezzi per rappresentare una verità già riconosciuta, ma permettono di scoprire una verità prima ignota. Dunque le lingue sono una Weltansicht, una visione del mondo, in quanto aprono una prospettiva senza la quale non si darebbe in verità alcun mondo. Ecco perché la traduzione diventa un compito difficile: perché il fatto che nessuna espressione, nessuna parola è mai perfettamente uguale a quella di un’altra lingua, riguarda l’idea di mondo che ogni lingua porta con sé. Ma allora perché tradurre? Che senso ha uno sforzo che già in partenza sembra destinato al fallimento? Humboldt risponde in questo modo: la traduzione è uno dei compiti più necessari per entrare in rapporto con “altre forme di umanità” che altrimenti resterebbero estranee e questo incontro è un “cospicuo vantaggio per ogni nazione”. Un vantaggio dato dalla possibilità di definire in rapporto con l’altro la propria identità.

Ecco allora che tradurre significa essere in grado di accogliere le “altre forme di umanità” senza volerle adattare al proprio orizzonte. È attraverso quell’incontro che riusciamo a definire la soggettività; la difficoltà del tradurre sta lì proprio a ricordarcelo continuamente perché è la difficoltà a incontrare l’altro nella sua distanza. Il rapporto con l’altra umanità è naturalmente un incontro anche fra lingue che, come altri incontri, decentra il soggetto favorendone il cambiamento. In questo senso tradurre mette in moto le possibilità espressive delle lingue che altrimenti rimarrebbero inespresse.

Si traduce, allora, perché tradurre ha a che fare con la nostra identità. Si traduce perché la nostra umanità lo richiede, perché è la prova che l’incommensurabile lontananza dell’altro può venire trasformata in desiderio di relazione. Si traduce e non si è mai smesso di tradurre, contro ogni paradosso, contro ogni impossibilità della traduzione, nonostante tutto ciò che si perde, nonostante tutti gli intraducibili.