Antonio Gramsci bollò male Il Conte di Montecristo. Lo scambiò per apologia della vendetta nella finzione, sedativo per la vera rivincita proletaria che solo il partito-principe machiavellico avrebbe potuto attuare. Gramsci, pensatore sovente di articolata raffinatezza, sbagliò solo quando si abbandonò agli umori: condannò i borghesi della Scapigliatura milanese (solo che quei poeti borghesi non erano, in primis per provenienza socio-culturale), apprezzò in un certo senso il sansepolcrismo. Ne derise la componente futurista e quella anarchica; apprezzò invece quella sindacale, che invero fu assorbita molto più facilmente dal fascismo corporativo.



Umberto Eco, in fondo, continuò lo stesso errore a danno di Dumas: non potendo più contestare l’ormai inarrivabile fortuna del Conte, si limitò a dire che era libro avvincente e tuttavia scritto male.

La verità è che tutti, reazionari o rivoluzionari o indifferenti al gioco (e giogo) della politica, ci siamo abituati a pensare al poderoso romanzo di Dumas, con la collaborazione di Auguste Maquet, come a un diario di una lunga vendicatività, consumata fredda grazie alla funzione acceleratrice di un maestro dorato (l’abate Faria) e di un colpo di fortuna essenzialmente patrimoniale. A ben vedere i fili rossi che animano il testo non sono solo quelli della rivincita o della sorte; possiamo anzi pensare di rileggere Il Conte immaginando quei temi, tuttavia sbagliando, se non marginali, almeno non decisivi. È un gioco di fine estate: ci sarà perdonato.



Innanzitutto, l’abbrivio della vicenda letteraria consiste nella forza obbligante che esercitano i grandi rivolgimenti politici: Edmond Dantès viene imprigionato come cospiratore bonapartista. L’impero napoleonico, solo pochi anni prima capace di dettare un immaginario apparentemente immortale, è caduto: chi non si è buttato dall’altra parte è un nemico. Che si dovrebbe dire, per esempio, di un giovane russofono del Donbass nel 2014 o di un suo coetaneo di origine ucraina dieci anni più tardi? Quando il potere muta di seme e di colore, gli sfollati della sconfitta sono attaccati nella loro vita civile, molto prima che nella loro ideologia politica. C’è poi il tema del matrimonio interculturale: perché un francese si è invaghito di una bella “catalana”? Patrie grandi e transitorie, patrie piccole e indelebili, se Mercedes è definita, appunto, “catalana” e non spagnola.



Esiste, poco esplorato, rispetto al tema della vendetta, quello simmetrico della gratitudine (che si percepisce anche nel Faust di Goethe o nei Miserabili): il genere umano è davvero in grado di fare qualcosa che sia più forte del rapporto obbligatorio tra ciò che si dà e ciò che si riceve? Perché, se accettiamo che esista una cattiveria smisurata, non ammettiamo mai la fondazione di una bontà diversa dalla stretta razionalità cartesiana? La ragione naturale non è tale proprio perché sfugge alla sua analisi quantitativa, meccanica, artificiale?

Riflettiamo su una cosa, infine. Chi ha mai visto Il Conte di Montecristo in una bella riduzione teatrale? Chi risponde affermativamente, senza dubbio, di riduzione dovrà in effetti parlare. Il libro è enorme, “grosso”, troppo punteggiato di ambientazioni diverse, personaggi diversi, coreografie e scenografie differenti. Facciamo un ultimo esercizio logico: Il Conte di Montecristo come soliloquio di Edmond Dantès. Scopriamo la capacità mimetica e polimorfica del potere: l’impersonarsi del travestimento può passare solo dal linguaggio, dalla composizione, dalla credibilità e dalla verosimiglianza. Non c’entrano il trucco, il panciotto, la voce.

Può essere vero quanto con tante cautele dicono da tempo i filologi: Dumas guardò alla storia di Pierre Picaud, ladro ingiustamente perseguito e uomo riabilitato ingiustamente vittorioso (almeno fino alla morte). Eppure non ci allontaneremmo troppo dal vero a pensare che Dumas, se guardava Picaud, in fondo ricercava lo specchio del mondo. Quello specchio mutevole dal quale nonostante tutto leggiamo noi stessi.

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