Ci sono dei luoghi, nell’Europa di oggi, in cui la plasticità elastica e mutevole della disponibilità all’incontro con l’altro da sé arriva ad assumere una chiarezza di evidenza clamorosa. È una disponibilità che può a volte significare anche volontà di conquista, di espansione e di assimilazione, o al contrario restringersi ripiegando su astuzie calcolate di difesa, nutrite da uno spirito protettivo di conservazione. Comunque essa agisca, si incontrano realtà che sono musei storici di questa legge fondamentale della sedimentazione, secondo cui sono state forgiate le forze che si muovono nel profondo del corpo dell’Europa, alla base della piramide delle sue fitte reti istituzionali e del suo mosaico di organizzazioni sociali tecnicamente più evolute.



Pensiamo alla Spagna andalusa, a una città splendida come Granada: dove le grotte con le reliquie dei martiri della cristianizzazione dei primi secoli punteggiano la sommità del colle che si eleva, con il suo monumentale Sacro Monte cinque-seicentesco, di fronte all’altura su cui si distende, dall’altra parte di una valle, la cittadella fortificata dell’Alhambra, affascinante relitto della lunga dominazione araba sulla penisola iberica, qui proseguita fino all’anno della scoperta dell’America (1492). Ai piedi delle colline, nel centro storico della città, la bellissima cattedrale rinascimentale e la Capilla Real dei sovrani della Reconquista cattolica sorgono dirimpetto alla ristrutturazione marcatamente barocca del palazzo della Madraza, sede dell’antica università musulmana di “legge coranica”, convertita in Municipio dopo la riconquista cristiana. A due passi da lì si incontravano la “Grande Moschea” (Mezquita mayor) e l’Alcaicería, il cuore pulsante del commercio cittadino, di cui, ugualmente, sopravvivono resti architettonici suggestivi.



Di ben altro genere di mescolanze è testimone la fascia meridionale della Francia attuale, in bilico tra mondo della Linguadoca occitanica e la Provenza più intensamente latinizzata. È stupefacente ritrovare ancora pressoché intatte, al centro di complessi urbani diventati i poli della precoce penetrazione del cristianesimo in queste terre ai bordi del dominio romano sul Mediterraneo, le orme appariscenti del rapporto di attrazione, più ancora che di implacabile assoggettamento politico-culturale, che la capitale dell’Impero aveva stabilito con ogni angolo della sua sterminata “periferia”. Accade per esempio ad Arles, oppure a Nîmes: uguale è l’impressione che suscita poter ammirare, nel gorgo del traffico cittadino, in mezzo all’andirivieni frenetico dei turisti che arrivano da ogni dove, arene circensi tuttora in uso, teatri all’aperto, resti di templi pagani nel reticolo quadrangolare di quello che un tempo era il forum. La colonizzazione romana qui si era sovrapposta agli strati indigeni preesistenti. Poi è venuta la cultura religiosa dei cristiani. La pressione dominatrice dei Franchi del nord si è annodata ed è entrata in concorrenza con il ruolo rivendicato dalle realtà politiche locali e con la presenza del potere papale ad Avignone. La tradizione della corrida e delle corse di tori sussiste ancora oggi, insieme agli usi ispanizzanti della cucina e del folklore locali, come segnale di persistente gravitazione verso il sud mediterraneo, mentre alle foci del Rodano, a Saintes-Maries-de-la-Mer, si venerano le due Marie arrivate dall’Oriente insieme a Marta, a Lazzaro e alla Maddalena, nel luogo in cui ogni anno gitani affluiti da ogni parte d’Europa celebrano i loro riti festosi nel mese di maggio, stringendosi intorno alla memoria di quella che per loro è la “santa” Sara la Nera, ritenuta la serva di colore che accompagnava le più illustri missionarie della prima ondata di diffusione verso occidente della nuova fede scaturita in terra di Palestina.



Per chiudere il cerchio, se ci spostiamo nel fulcro nevralgico dell’antico Mediterraneo, nelle terre di Sicilia e lungo i porti di ciò che, espandendosi sulle coste dell’Italia meridionale a partire dall’VIII-VI secolo prima di Cristo, prese il nome di Magna Grecia, troviamo altre conferme impressionanti di quella mobilità dei popoli che ha favorito le contaminazioni, i travasi e i fenomeni di inglobamento, generando realtà multietniche contrassegnate da un Dna composito, agglomerati di tipo “transnazionale” che erano, di fatto, camaleontiche fusioni di elementi in origine estranei, messi in dialettica instabile fra loro, generatori di sincretismi con indirizzo evolutivo largamente plurimo.

Di nuovo riemerge, da questo punto di vista gettato sulla vicenda storica, il primato della varietà che riunisce il diverso e costringe a dialogare muovendo da posizioni tutt’altro che allineate a ricalco. L’unità sul piano della vita locale era l’esito che si costruiva in un corpo a corpo disteso sul filo della durata: e non è detto che lo sbocco finale fosse per forza quello di una armonia pacifica e duratura.

Anche ai limiti settentrionali del bacino dell’Adriatico il quadro si ripresenta con connotati simili, naturalmente facendo leva su attori cambiati. Pensiamo alla penisola istriana e alla regione costiera della Dalmazia, nel punto in cui sono venute a incrociarsi, rimescolandosi con tante gradazioni di sfumature cangianti, le antiche popolazioni celtiche e illiriche, i colonizzatori greci e i conquistatori romani (dal II secolo a.C.), la forza crescente di Venezia e poi della potenza asburgica, da nord, in direzione contraria rispetto alla risalita verso i paesi cristianizzati del centro-ovest del continente tentata dall’Impero Ottomano agli inizi dell’età moderna. La linea sismica di confine tra popoli slavi (oggi in primo luogo: sloveni, croati, montenegrini, albanesi), popoli centroeuropei di lingua e cultura tedesca, presenza italiana a lungo maggioritaria sul piano della leadership, gruppi locali eredi della conquista turco-islamica (più forti all’interno e verso sud, nel Kosovo, nell’attuale Albania, in Macedonia) non ha generato solo una faglia instabile di scontri e lotte reciproche: ha creato anche una vasta fascia di confluenze, attraverso cui si sono addensate filiere di assimilazione e contagio reciproco. Basta aggirarsi in un centro gravido di memorie storiche plurisecolari, come Spalato, o più semplicemente visitare un tipico luogo di incrocio multiculturale quale l’istriana Pola, per essere rimessi di fronte ai movimenti oscillanti di una storia che è stata sempre di frontiera.

Dove i diversi arrivano a toccarsi, e perciò sono spinti inesorabilmente a interagire, a misurarsi l’un altro e a ricercare, se non forme di connubio, almeno soluzioni di ragionevole compromesso, si può poi scivolare, altrettanto facilmente, nello spirito di competizione, scavando fratture profonde che diventano fonte di conflitto e di divisione: l’altra faccia, più dura e spigolosa, della sollecitazione a convivere influenzandosi a vicenda in uno spazio promiscuo.

Il raffinato anfiteatro romano di Pola, con i suoi archi leggeri che sembrano lavorati d’intaglio, insieme all’arco trionfale della famiglia dei Sergi, ci parla del passato lontano della città marinara, avamposto della colonizzazione latina verso le contrade del centro Europa. Le sopravvivenze che rimandano all’ecumene dell’età classica ed ellenistica si mescolano alle architetture religiose paleocristiane, e a quelle medievali e rinascimentali di stile inequivocabilmente veneziano. Le zone del centro custodiscono le tracce della pavimentazione stradale dei conquistatori romani e del “foro” da loro inaugurato. Sono rimasti in piedi ben due teatri e alcune fra le porte dell’antica cinta muraria. Sussiste ben conservato il tempio di Augusto, grazie al favore oggettivo di essere addossato al Palazzo Comunale, che risale però al XIII secolo. Sul fronte opposto, i palazzi, le case e gli arredi urbani dell’Ottocento e del primo Novecento ci riportano all’epoca della dominazione austriaca, spazzata via dai rivolgimenti violenti del primo conflitto mondiale, azzerata fino all’ultimo, pallido, risvolto terminale di una storia travolta dal polemico rifiuto ideologico dei loro non meno pesanti strascichi successivi.

(2 – fine)