Nel febbraio del 2011 l’opinione pubblica mondiale rese omaggio ai colossi del web indicandoli come il valore aggiunto delle Primavere arabe. Internet appariva allora come il motore democratico anche di importanti movimenti sociali e politici: dall’Islanda alla Spagna, dagli Usa all’Italia.
A dieci anni di distanza, Facebook, Twitter e Whatsapp sono etichettati come il nuovo potere contro cui si registra la protesta di milioni di cittadini, che hanno deciso di abbandonare quelle piattaforme.
La rivoluzione spontanea e popolare in Tunisia, che il 14 gennaio 2011 costrinse il presidente Ben Ali a fuggire in esilio, o le grandiose proteste in Piazza Tahrir al Cairo, che l’11 febbraio di quello stesso anno portarono alle dimissioni dell’onnipotente presidente Hosni Mubarak, sarebbero inspiegabili senza tenere conto dell’apporto fornito da Facebook e Twitter. “Condividendo problemi e speranze nello spazio pubblico e libero di Internet – ha scritto il sociologo Manuel Castells – singoli individui hanno dato vita a una varietà di network (…). E questo loro ritrovarsi insieme li ha aiutati a superare la paura, (…) su cui fanno affidamento i poteri costituiti per prosperare e riprodursi”.
Per questi motivi, in quegli anni, molti hanno visto in Internet l’anima di una nuova forma di democrazia partecipativa. Grazie a Facebook e Twitter, infatti, alcuni movimenti popolari e democratici hanno aggirato la censura dei poteri dittatoriali nel mondo arabo.
Dieci anni dopo, come detto, ci ritroviamo a leggere sulla stampa internazionale che Twitter e Facebook “sono il potere”. Un tempo queste piattaforme davano il megafono ai senza voce, oggi possono decidere – a seconda dei loro interessi – di accenderlo o di spegnerlo sia ai potenti, sia al popolo.
Non è un mistero che Twitter abbia contribuito in maniera significativa alla creazione del fenomeno “The Donald”. Lo stesso ex presidente Usa, in un’intervista del 2017 al Financial Times, aveva ammesso: “Senza Twitter non sarei qui”. E alle elezioni presidenziali del 2016 era stata fondamentale, in vista del risultato finale, la concessione fatta da Facebook allo staff di Trump dei dati analitici sugli elettori in alcuni Stati dell’Unione.
Dopo i fatti del 6 gennaio scorso a Capitol Hill, e quando ormai era chiaro che Biden sarebbe stato il nuovo presidente Usa, le grandi piattaforme di Internet, invece, hanno cancellato i profili dell’ex inquilino della Casa Bianca. Una misura certamente necessaria, ma tacciata di partigianeria anche da osservatori non certo vicini al magnate americano. Quella decisione, che non risponde a regole scritte e condivise, suona sospetta se solo si considera che in piena campagna elettorale, quando i giochi erano ancora aperti, le stesse piattaforme si erano rifiutate di etichettare come fake news certi spot di Trump esplicitamente falsi, sostenendo che “spettava agli elettori risolvere il nodo tra verità e bugie”.
Facebook, Twitter e Youtube, d’altronde, hanno sempre usato come paravento il fatto di non essere editori, ma semplicemente piattaforme “neutre” su cui altri pubblicano materiali informativi. E in molte circostanze queste piattaforme si sono giovate della tutela della legge, che le solleva da ogni responsabilità penale per le notizie false e diffamatorie pubblicate sui loro siti.
Ma possiamo parlare di piattaforme “neutre” quando ci riferiamo a Facebook che coi suoi oltre 2,5 miliardi di utenti è la più grande fonte di informazione al mondo? O ad altri giganti di Internet che, attraverso i motori di ricerca, filtrano e condizionano i comportamenti di centinaia di milioni di persone?
I padroni delle grandi piattaforme del web possono costituire veramente un nuovo potere illimitato. È per questo motivo che da più parti si invoca, con sempre maggiore insistenza, l’adozione di regole che abbiano il consenso della comunità internazionale.
Qualcuno potrebbe chiedersi: Internet ha cambiato natura in questi dieci anni o già durante le Primavere arabe eravamo noi col fumo negli occhi? In tempi non sospetti un ricercatore della Stanford University – Evgenij Morozov – aveva parlato di “entusiasmo degli ingenui”.
Basta guardare, d’altronde, cos’è accaduto in Egitto dopo Mubarak per rendersene conto: le urne hanno premiato i Fratelli musulmani con Mohammed Morsi, che hanno traghettato ben presto il Paese da una dittatura laica a una dittatura religiosa. Il successivo cambiamento di regime, nel 2013, ha riportato al potere i militari col generale al Sisi. E in tutti questi processi Internet s’è dimostrata impotente sia a difendere la democrazia sia a promuovere lo sviluppo.
Eppure c’è una lezione che le Primavere arabe ci hanno lasciato.
Allora molti intuirono o fecero esperienza di non essere sudditi ma persone con un desiderio innato di libertà. Una lezione da ricordare oggi dinanzi alla riduzione dell’utente di Internet a mero prodotto (ricordiamo la massima “Quando qualche servizio è gratuito, significa che il prodotto sei tu”). La persona non è mai identificabile con i prodotti che consuma o che vorrebbe comprare; la sua identità coincide con la sua capacità di desiderare in grande e di essere libera di scegliere.
Dovendo misurarci col Quarto Potere Digitale certamente dobbiamo esigere che esso non si muova più a proprio piacimento o sotto il controllo di Stati autoritari, ma seguendo regole internazionalmente condivise, che garantiscano il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Ma ancora di più, in questa partita decisiva per il nostro futuro, ciò che conta veramente è un “io” capace di essere solidamente ancorato al reale ed educato alla libertà e alla ricerca della verità. È su questo terreno che dobbiamo investire se vogliamo contrastare seriamente il nuovo potere digitale.
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