Siamo all’inizio di un nuovo anno. Ciò che colpisce chi era giovane all’epoca del miracolo economico, del Sessantotto e del Concilio Vaticano II è il fatto che non solo a motivo della guerra in Ucraina e della pandemia non si delineano da tempo grandi speranze all’orizzonte dell’umanità. E pensare che in quegli anni ormai lontani persino un’enciclica s’intitolava Populorum progressio.
L’ecologia stessa non costituisce un vero e proprio ideale di progresso, perché reagisce necessariamente in seconda battuta a problemi posti dallo stesso incontrollato sviluppo economico e tecnologico. Certo si auspica stancamente il progresso da parte di politici e intellettuali, ma non sempre si è motivati a perseguirlo e, soprattutto, non si sa bene in cosa precisamente riporre la speranza. E pur tuttavia l’uomo vuole sperare.
In questo contesto si registrano, soprattutto negli Stati Uniti, reazioni preoccupate di fronte a forme considerate regressive come il populismo e il razzismo, come pure tentativi di riproporre il tema del progresso morale caro all’illuminismo, esaminando i progressi che hanno avuto luogo nella modernità e chiedendosi come potrebbero esserne incentivati di nuovi o come si potrebbero evitare possibili regressioni (cfr., per esempio, P. Kitcher, Moral Progress, Oup 2022; A. Buchanan, R. Powell, The Evolution of Moral Progress. A Biocultural Theory, Oup 2018).
Che cosa emerge da queste ricerche? Innanzitutto che non si può parlare fondatamente di progresso e regresso morale in generale, ma solo in particolari, significativi ambiti. I volumi si soffermano soprattutto sul progresso come allargamento in senso inclusivista di certi diritti agli schiavi, alle donne, alle minoranze culturali e sessuali, agli animali superiori. In effetti questo è uno dei modi più facili per valutare il progresso morale. Anche se certo esso non si riduce a questo. Gli autori mostrano, così, il ruolo esercitato dall’evoluzione biologica e culturale e come certi progressi prima non previsti, come l’abolizione della schiavitù, siano frutto oltre che di ideali etici e religiosi, di particolari situazioni socioeconomiche favorevoli. In realtà non solo le risposte ma i problemi stessi sembrerebbero essere sollecitati da particolari circostanze.
A parte il fatto che i progressi morali che potrebbero aver luogo in futuro sono oggi come ieri difficilmente prevedibili, se è vero che possiamo favorire l’insorgere di condizioni complessivamente positive e non conflittuali, queste non dipendono in buona parte dalla nostra volontà. Possiamo invece meglio lavorare pazientemente sulla maturazione morale dell’individuo. Questo è il compito dell’educazione. In questa prospettiva il secondo dei volumi citati sottolinea prudentemente che non è detto che un allargamento dei diritti in senso inclusivista coincida con un incremento delle virtù del carattere delle persone e il primo accenna al fatto che, se non aumenta il senso dell’appartenenza a comunità, che certo non è favorito dal capitalismo consumista, difficilmente l’individuo da solo è motivato e sostenuto a perseguire il progresso morale.
Infine si può discutere la gerarchia dei valori che viene adottata per valutare qualcosa come progresso. Immaginiamo, per esempio, una società in cui le persone facciano la raccolta differenziata, siano vegetariane, rispettino le persone di razze e costumi diversi dai loro. Non si vuole in alcun modo negare il valore “progressivo” di questi aspetti, ma, come gli stessi autori osservano, sarebbe difficile parlare di genuino progresso morale se la loro vita non fosse unificata, motivata e gerarchizzata da un senso e da una speranza, ma consistesse, per esempio, solo in una serie di precetti da osservare. Le domande che emergono sono: a che cosa serve impegnarsi se la mia vita non progredisce in consapevolezza e senso? Che cosa mi motiva? Come accorgersi delle nuove situazioni che esigono cura? E come gerarchizzare fra i diversi valori che possono essere in concorrenza?
Si potrebbe osservare che per parlare sensatamente di progresso morale occorre, prima di affrontare il tema dei cambiamenti possibili e auspicabili, riconoscere quei dati della condizione umana che non sono modificabili pena cadere nel nichilismo. Se tutto si può cambiare, infatti, nulla vale. Per discernere che cosa cambiare e che cosa conservare occorre partire dal riconoscimento di alcuni dati quali il nostro essere al mondo in un determinato tempo e spazio e alcuni legami non scelti. Tali dati costituiscono dei limiti da riconoscere (Cfr. D. McPherson, The Virtue of Limits, Oup 2022).
La possibilità di riconoscere un senso anche ai limiti strutturali dell’uomo fa parte del valore di una civiltà. Alla tendenza orizzontale all’allargamento dei diritti occorre affiancare, quindi, quella verticale al riconoscimento dell’unicità dei singoli, della diversità e della gerarchia. Occorre cioè gerarchizzare fra diversi valori, doveri e diritti, se si vuole veramente progredire. L’uomo saggio è colui che avendo il senso del limite perché non pone se stesso al centro della realtà riesce a discernere quando e dove è bene andare avanti e quando e dove fermarsi. Non a caso si parla oggi della necessità di riscoprire accanto all’ecologia dell’ambiente con le sue limitazioni un’ecologia dell’umano.
Forse in questo particolare momento storico, in cui si risente di veloci mutamenti non ancora pienamente assimilati, non solo spingere l’acceleratore dell’estensione di certi diritti, ma anche e innanzitutto infondere speranza e comunicare saggezza e senso della misura attraverso la propria esistenza costituisce il maggior contributo al progresso morale.
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