Esiste una poesia cristiana? La poesia può davvero essere un valido strumento di evangelizzazione? E, addirittura, la poesia è in grado di trasmettere la fede? A queste e ad altre domande cerca di dare una risposta Cristianesimo e poesia, di Dana Gioia (prefazione di M. Statzu, trad. di G. Podestà, Graphe.it, 2024). Al di là della sana provocazione costituita dalla domanda di partenza, il valore aggiunto di questo agile libretto è soprattutto uno: per noi italiani, almeno da una prospettiva storica, la risposta è sì, esiste una poesia cristiana; non per nulla siamo la patria di Dante, e la letteratura del nostro Paese nasce con le Laudes Creaturarum di Francesco d’Assisi.
Ma l’autore del volume, Dana Gioia, poeta, critico e saggista statunitense, parla da studioso e letterato cresciuto in una temperie culturale ben diversa dalla nostra, e, pertanto, alla domanda risponde in modo molto diverso. Non troverete pertanto in questo libro alcun commento a Dante e alla Commedia, o agli Inni sacri di Manzoni; e forse proprio per questo il discorso di Gioia ha il potere di calamitarci e di interessarci, dato che ci viene squadernato davanti agli occhi un panorama di autori e letture per noi non sempre immediato e familiare.
Per Gioia, la poesia non è solo importante per il cristianesimo, ma è anzi un aspetto inestricabilmente essenziale e necessario della fede e del culto. Ovviamente, molti cristiani potrebbero, a una prima lettura, catalogare questa affermazione quanto meno come bizzarra. Ma, a ben pensarci, per prima cosa un terzo della Bibbia è scritto in versi o comunque in forma poetica: e la poesia sacra non è confinata ai Salmi, al Cantico dei Cantici e alle Lamentazioni. Infatti, anche i libri profetici sono scritti principalmente in versi. E anche i libri sapienziali (Proverbi, Giobbe e Qhoelet) sono poetici, anche se di genere diverso; né va dimenticato come vi siano passaggi poetici in molti altri passi delle Sacre Scritture.
Pensiamo per esempio a quando Ruth, rimasta vedova, supplica di rimanere con la suocera, si esprime con parole che trasformano la natura emotiva della narrazione: se, infatti, fino a quel momento le due donne sono state come figure in una vecchia storia, all’improvviso esse prendono vita, diventando esseri umani a tutto tondo, che soffrono e amano credibilmente (Rt 1, 16-17): “Dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te”.
Questo afflato poetico resterà vividamente presente nella lingua e nella cultura inglese perché la Bibbia di Re Giacomo ebbe la felice sorte di essere tradotta nell’epoca di Shakespeare. Commissionata da Giacomo I, successore di Elisabetta I e figlio di Maria Stuart (un albero genealogico che già di per sé è una tragedia shakespeariana), questa Bibbia, la cosiddetta “versione autorizzata”, fu pubblicata nel 1611. I traduttori impiegarono una cura molto particolare per cercare di trasmettere tutto il potere poetico ed evocativo e la solennità dei passaggi in versi, e per questo si rifecero molto spesso direttamente alla versione ebraica. Del resto, il Rinascimento inglese non era un’epoca fatta per la prosa e nessun altro libro ha avuto un effetto tanto profondo sulla poesia in lingua inglese. Nel Nuovo Testamento, è vero, non ci sono libri in versi, ma la poesia è intrecciata intimamente al tessuto che forma sia i Vangeli che le Lettere apostoliche. Le beatitudini non hanno forse una cadenza poetica attentamente modellata secondo la tradizione della letteratura profetica? e l’Apocalisse potrebbe essere definita un poema in prosa, risonante e ricco di simboli com’è.
Verrebbe da chiedersi dunque perché ci sia tanta poesia nelle Sacre Scritture: interrogarsi su quale posto abbia la poesia nel cristianesimo non è una domanda letteraria, ma teologica. Teniamo anche conto, sottolinea con calore Gioia in queste pagine, che la poesia, con la sua Bellezza, è l’idioma più adatto per la rivelazione del mistero: eppure, per molti credenti le verità della fede – dall’Incarnazione, alla Trasfigurazione, alla Resurrezione – non sono più eventi cui guardare con un misto di timorosa soggezione e grata meraviglia; quel che prevale è un sentimento che l’autore chiama “pertinente senso di deferenza”. Tuttavia c’è qualcosa di poetico e profondo nella liturgia stessa: l’autore ci esorta a riflettere su quanto bisogno abbiamo ancora oggi, soprattutto oggi, della forza del linguaggio, che, nella liturgia come anche nelle omelie e nell’insegnamento, ha lo scopo di elevare e vivificare. Uno scopo alto, ma, come dice l’autore, nella domanda che chiude questo breve saggio, “dobbiamo usare parole per parlare gli uni agli altri, a noi stessi e a Dio. Perché non dire le nostre verità con gioia e splendore”?
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