Nel linguaggio contemporaneo caratterizzato dal politicamente corretto, dalle convenienze sociali e dalle censure della ragione positivistica sembra scomparsa la parola “perdono”. Talvolta riaffiora dopo eventi drammatici: omicidi, atti terroristici, ecc. Di solito il giornalista o il telegiornalista, in modo serafico, chiede alla persona colpita: “lei perdona?”. L’esigenza di uno scoop tutto miele e bontà finalizzato all’happy end finale prevale su pudore e verità dei fatti. Si cerca, poi, in altri casi, di sostituire la drammatica parola-evento con altri termini depotenziati: scuse, rammarico, passo verso l’altro, ecc. Tutto questo armamentario serve solo ad anestetizzare le coscienze nel nome di “un andrà tutto bene” in cui, ultimamente, non si sa dove si andrà e nemmeno quale sarà il bene preannunciato. E d’altro canto, il perdono richiesto dal circo mediatico assomiglia spesso solo a sforzo morale, filantropismo senza ragione, dimenticanza dell’io ferito. Ma allora che cos’è il perdono autentico e da quale vita nasce?
Nel testo di L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo (Rizzoli) vi è la sottolineatura di un amore infinito che è all’inizio di tutto e domanda a un io: “Simone, mi ami tu?”. Quest’amore totale di Cristo aspetta un sì al Suo Sì misericordioso e anticipato. Ma “accettare il perdono è forse la cose più difficile, anche se rimane semplicissima”. Il perdono di Cristo introduce una misura più grande e più forte, in grado di oltrepassare barriere e schermi, azzerando il male fatto. Uno scandalo insostenibile per la ragione giuridica pronta sempre al processo e per gli intellettuali educati alla legalità. “Il perdono è innanzitutto una riduzione a nulla di tutto il male che ho fatto. Ma anche di tutto quello che farò, perché tra un mese, tra un anno, formalmente dovrei dire lo stesso di oggi”. Ed è proprio la memoria generativa, viva e attuale del perdono ricevuto da Uno che ama me, che rende possibile il perdono ad altri. E dal perdono ricevuto e fatto proprio nasce un popolo nuovo di uomini in cui il cuore non è più vuoto, ma, finalmente, batte forte.
Questa verità è ben espressa anche dai grandi di cui ricorrono le celebrazioni di quest’anno: Dostoevskij (200 anni dalla nascita) e Dante (700 anni dalla morte).
Il genio russo, infatti, mette in luce il destino di due vite diverse: quella di Stavrogin ne I demoni e quella di Markel ne I fratelli Karamazov. Il primo confessa tutto il male fatto, ma senza accogliere l’abbraccio del sì di Tichon alla sua persona. La sua confessione è, infatti, solo l’ennesima riaffermazione del suo vuoto potere di maschera del nulla, la cui falsità è svelata dal tono della lettera. Egli riduce la presenza di chi gli testimonia un’apertura alla sua vita, a quella di “maledetto psicologo”. Si chiude, infine, nel rifiuto della luce, precipitando nella voragine finale.
In maniera totalmente diversa, Markel, il fratello del futuro starec Zosima, accetta con semplicità il perdono. E da quell’avvenimento rinasce la sua vita con una quantità, un’intensità, una forza prima impensabili. La morte si approssima e gli è ormai vicina, ma sembra non avere potere. Dice cose più grandi, più alte di sé in cui già si vede la nascita di un mondo nuovo. “Mamma, le rispondeva, non piangere, la vita è un paradiso e tutti noi siamo in paradiso; e non vogliamo saperlo; ma se volessimo saperlo, domani stesso il mondo intero sarebbe un paradiso”. In lui, infatti, sono presenti tutti, ma pensati e amati, a partire da un perdono ricevuto che libera. Si rende presente cioè quanto scrive don Giussani: “Il Popolo nuovo nasce da questo perdono e da questa attività inesausta, attività non pagata dalla sua costruzione (perché “riesce”). Non c’entra nessuna misura qui, né riuscire né non riuscire. Dentro il perdono, appoggiati al perdono si riprende da capo mille volte al giorno”.
E infine Dante nel canto III del Purgatorio evidenzia il dramma di Manfredi, che scopre e accoglie la sua vulnerabilità ultima, aprendosi all’abbraccio totale del Sì definitivo: “Poscia ch’io ebbi rotta la persona/ di due punte mortali, io mi rendei/ piangendo, a quei che volentier perdona/ Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei”.
Insomma, nella vita, bisogna aver sentito tutto il dolore del proprio nulla abbracciato, come ne Il ritorno del figliol prodigo del celebre dipinto di Rembrandt, per ricominciare con tutto/tutti, in un modo diverso da quello che pensa il mondo o dice attraverso chiacchiere inutili.
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