In testa a un celebre volume di Gianfranco Contini sta un titolo sobrio e pur tutt’altro che neutro, Un’idea di Dante, titolo che lascia apparire un orientamento peculiare, sotteso a tutti i saggi chiamati a raccolta, di datazione disparata. E in effetti, Contini, nel suo approccio stilistico, si faceva forte, a non dir altro (e sarebbe non poco altro), di una tranquilla coerenza, senza cedimenti e deviazioni. L’intestazione da lui prescelta ha fatto comunque presa anche su chi intendeva muoversi con consapevole disponibilità, accostando Dante attraverso una pluralità di inquadrature.



A Mirko Tavoni è bastata una leggera variazione per intitolare un suo libro del 2015, tanto rigoroso quanto variegato, Qualche idea su Dante, a rivendicazione di una curiosità “a largo spettro”, usufruttuaria di varie discipline, a seconda del luogo dantesco in questione, del suo specifico problema.

Da parte sua, Stefano Carrai – ben consapevole che il dibattito su Dante raramente oggi abbraccia tutto Dante, e più spesso si dirama in controversie di settore, ciascuna in corrispondenza di un determinato scritto del poeta e prosatore e trattatista – non ha esitato ad adottare, per un proprio sondaggio sul libello in onore di Beatrice, il titolo Un’idea della “Vita nova”. Ristabilendo la profilata e non eclettica sigla continiana; ma in riferimento a un solo individuo del corpus dantesco.



A esser precisi, quello è il sottotitolo, accortamente posposto al titolo vero e proprio, Il primo libro di Dante (Edizioni della Normale, 2020). Scritto d’esordio, dunque, la Vita nova? L’esordio di Dante c’era già stato, all’incirca quindici anni prima; quando il giovane allievo di Guittone, dotatissimo allievo, destinato a passare ben presto alla più sofisticata scuola di Cavalcanti, aveva dato avvio a una feconda stagione lirica. Canzoni, ballate, sonetti, stanze isolate di canzone, sonetti rinterzati avevano costituito un campionario riccamente assortito di esiti. Tutti comunque attinenti alla lirica, al suo carattere puntiforme. Per la sensibilità medievale, beninteso, ogni poesia è un’opera compiuta, tanto da poter circolare autonomamente presso il pubblico, una volta che è stato reciso il cordone ombelicale con l’autore.



Dante, però, ambiva a superare la frammentarietà e la dispersione, pretendeva la totalità, e il più possibile organica: di qui l’invenzione della raccolta di pezzi lirici in un libro fortemente unitario, il suo primo libro, appunto. Nella Vita nova, il rimatore di grido si ripresenta ai lettori come artefice di una costruzione testuale ampia e ben strutturata, dove singoli micro–testi vengono riscattati dall’originario isolazionismo e portati a compimento entro un macrotesto comprensivo.

Quell’operazione risultò felice ed ebbe successo, inaugurando la “forma-canzoniere” (beninteso d’autore), un’architettura destinata a durature fortune nelle lettere nostrane, e non solo. E il più immediato rilancio venne da chi, come Petrarca, non nutriva per Dante speciali simpatie, magari a motivo di un’assillante angoscia dell’influenza. Fu proprio lui a fare i conti per primo con un esempio imprescindibile, raccogliendo a sua volta le proprie rime, convogliando quei frammenti dell’anima e della scrittura nel superiore insieme del Canzoniere. Per un verso, la Vita nova, con la sua santificazione dell’amata, riusciva inimitabile; per l’altro, in forza della moderna istanza strutturante, incitava l’emulazione. Sarebbe bastata una sola di queste prerogative a stabilirne la levatura non comune. Che Carrai giustamente rivendica: “Se Dante non avesse scritto, negli anni della maturità, quello straordinario poema che è la Commedia, sarebbe rimasto comunque nella storia della letteratura italiana ed europea grazie al capolavoro della sua giovinezza, ossia per aver scritto la Vita nova”.

Ma se appare già rivoluzionario l’approdo al libro, quale idea ci si dovrà fare ultimamente di questo libro? Lo stampo della raccolta di liriche era di per sé disponibile a riempirsi in vario modo. Poteva sintonizzarsi su questo o quel genere letterario. Il parametro del genere per Carrai è decisivo. Mentre considera la cronologia della Vita nova, le varianti d’autore, la scrittura a forte e mirata indeterminatezza, la presenza della lezione virgiliana, le filigrane orfiche, lo studioso tiene ferma una diagnosi di fondo: a qualificare il libello dantesco sono il tema funebre e lo stile corrispettivo. La Vita nova, insomma, si orienta verso il genere dell’elegia. Valutazione che rappresenta una conferma e un approfondimento: risale al 2006 una monografia di Carrai su Dante elegiaco; con un seguito importante in alcuni capitoli del volume Dante e l’antico, posteriore di sei anni.

Ai sensi del De vulgari eloquentia, l’elegia spetta agli infelici, è lo “stilus miserorum”: definizione ellittica, che giova comunque a una distinzione abbastanza netta sia dal genere tragico che da quello comico. Comporta, l’elegia, il passaggio dalla felicità al suo contrario, ma senza che intervenga una catastrofe finale: la conclusione tragica manca, in suo luogo si instaura uno stato perdurante di desolazione (diremmo, noi moderni, di depressione), manifestato da lamenti, sospiri e lacrime. Il protagonista del genere elegiaco patisce non la morte, ma il dolore e il suo rinnovarsi; rimane nel lutto, geme per una perdita insurrogabile – di una posizione sociale, di una persona amata, in genere di un bene già posseduto e poi sfuggito di mano –, senza essere stroncato e al tempo stesso senza potersi risollevare. Unico soccorso, la pietà altrui; che comunque non vale – attenzione – a lenire e magari estinguere l’affanno, perché al contrario lo acuisce.

Si pensi a un’inquadratura come Vita nova 24: da più di un anno, il protagonista sconta la scomparsa di Beatrice, immerso in un’afflizione indicibile; lo scorge da una finestra una donna, la quale si intenerisce per quella sofferenza, tanto che “tutta la pietà pare in lei accolta”; il “vedovo” se ne accorge e avverte in sé una rinnovata voglia di pianto, poiché “quando li miseri veggiono di loro compassione altrui più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di se stessi avendo pietate”.

Se a questo punto attiviamo un mentale motore di ricerca, inserendo, in luogo di “canzoniere”, la parola chiave “elegia”, ritroviamo, accanto a Dante, Petrarca, ma stavolta anche Boccaccio, ammiratore e più volte seguace della Vita nova. Basterà qui annoverare l’Elegia di Madonna Fiammetta che, sin dal Prologo, fa risuonare note inequivocabili: “Suole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono in alcuno compassione”. Ben riconoscibile l’inflessione dantesca; rimodulata dalla voce di Fiammetta, una protagonista che conduce in proprio la narrazione delle sventure sortite.

Va registrato, peraltro, che il circolo della compassione, nel passo di Boccaccio, sale di livello, coinvolgendo non due personaggi, bensì la narratrice e il suo pubblico. Non volendo che, col tempo, il dolore provato si affievolisca, Fiammetta narra i suoi tristi casi a una cerchia di donne, in modo da esserne compatita e trarre dall’altrui pietà incentivo ulteriore ad autocommiserarsi. Del tutto in linea col genere di riferimento, l’Elegia di Madonna Fiammetta presenta una storia dolente fino alla fine, quella fine in cui la protagonista, devastata e afflitta, assume un ruolo autoriale e, lasciate le spoglie di io narrato, si tramuta nell’io narrante già in scena nell’incipit. Val la pena tornare su quell’avvio, leggerlo più ampiamente: “Adunque, acciò che in me, volenterosa più che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s’avanzi, mi piace o nobili donne, narrando i casi miei, di farvi, s’io posso pietose”. Questo è puro Boccaccio. Su una falsariga che da quella dantesca sta divergendo.

A riguardo, torna a illuminare la nostra visuale l’analisi di Carrai; analisi tanto determinata a evidenziare l’orizzonte elegiaco del libello dantesco, quanto pronta a riconoscere il sorgere finale di una diversa prospettiva. Raccontando la storia di un amore intersecato dalla morte, la Vita nova non poteva che dar spazio al dolore e al lutto, specie nella terza parte, in cui madonna ha raggiunto la patria celeste e amante si strugge in terra per l’assenza di lei.

Eppure, la proiezione visionaria di Dante precorre il ricongiungimento. “La visione finale di Beatrice ormai collocata nell’empireo, al cospetto della gloria di Dio” lasciava presagire che dolore e lutto “sarebbero stati riscattati in una dimensione diversa e in un testo di ben altra potenza catartica come il poema sacro sul viaggio nell’aldilà”. In questo senso, “più che il libro dell’elegia, la Vita nova voleva essere il libro del superamento dell’elegia”.

Una conferma? La troviamo a portata di mano: l’io narrante del primo libro dantesco non si rivolge al pubblico per ottenere quella pietà di cui ha bisogno come alimento del suo patire. Non è in veste di disgraziato e afflitto che prende la parola, semmai quale testimone di una grazia miracolosamente data; data e tolta, è vero, ma per essere definitivamente resa in una forma più alta.