L’ultimo canto del Paradiso, il trentatreesimo, non è forse il più facile, ma certo il più celebre della terza Cantica, e forse di tutta la Commedia, a motivo della celeberrima preghiera di S. Bernardo alla Vergine. Esso è noto persino ai preti e ai religiosi, che lo leggono nel loro Breviario all’inizio del “Proprio di Maria Vergine”. Non è assurdo quindi supporre che quel canto sia stato scelto spesso, tra tutti, per essere messo nell’elenco – ormai “sapientemente dosato” – dei programmi di maturità. Mi permetterò allora, con qualche ragionevolezza, di citare dodici versi di quel canto per chiedere alla marea di studenti e docenti l’interpretazione di un solo verso: Paradiso, XXXIII, 117. Prima però devo introdurmi presentando la seconda parte di un canto (mi si permetta di pensarlo) divinamente ispirato, come le parole dei profeti.



Come dono concesso al poeta per intercessione della Vergine Maria invocata “dal suo fedel Bernardo”, Dante può affondare gli occhi nell’imperscrutabile e indicibile mistero di Dio. Lo fa con un trasporto e una commozione che a fatica riesce a comunicare, mentre persino l’armonia e la musica delle sfere celesti si tacciono di fronte all’inaudito. In tre incredibili brani di altissima poesia teologica, Dante Alighieri comunica al lettore tre sublimi e supreme verità della fede cristiana. Anzitutto la sua contemplazione del “mistero dell’Unità di Dio”, non costituito dal fatto che esiste un solo Dio, ma dalla ben più acuta constatazione che Egli è l’unità del Tutto: che tutto è in Lui e Lui è nel tutto:



“Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna” (Par. XXXIII 85-87).

Dopo di questo e dopo un’adeguata preparazione alla visione sempre più sublime, il poeta comunica al lettore le visioni che gli hanno suggerito e figurato “il mistero della Trinità” in Dio.

Non perché più ch’un semplice sembiante / fosse nel vivo lume ch’io mirava, / che tal è sempre qual s’era davante; / ma per la vista che s’avvalorava / in me guardando, una sola parvenza, / mutandom’io, a me si travagliava. / Nella profonda e chiara sussistenza / dell’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza /e l’un dall’altro come iri da iri / parea reflesso, e ‘l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri. (Par. XXXIII 109-120)



Tento di parafrasare. “Nello splendore in cui affondava il mio sguardo, l’immagine che vedevo non mutava in se stessa, ma dato che la mia capacità visiva cresceva col mio stesso guardare, essa si trasformava davanti a me componendo immagini diverse. Così, nella luminosa e profonda consistenza di quello splendore, mi apparvero tre cerchi di tre colori diversi e d’una contenenza. Due di questi cerchi si riflettevano reciprocamente come due arcobaleni paralleli e il terzo sembrava un unico fuoco ugualmente alimentato dall’uno e dall’altro cerchio”.

Non dimentichiamo che il Poeta sta cercando di comunicare, con l’aiuto di forme geometriche, un mistero come quello della Trinità, che del resto è proprio un mistero di relazioni. I primi due cerchi si riflettono perfettamente l’un nell’altro: quanto basta a suggerire il reciproco rapporto del Padre generante e del Figlio generato a Lui perfettamente identico. Il terzo cerchio è invece un fuoco, contemporaneamente alimentato dai due primi cerchi. E questo, tra parentesi, significa che Dante aveva già risolto, a suo modo, il problema del “filioque” che ancora divide le due Chiese: cattolica e ortodossa, con enorme e reciproco disagio.

Alla fine del canto, un terzo mistero ci sarà proposto: quello della corporea presenza del Cristo risorto e della nostra stessa corporeità, un giorno, dentro il mistero eterno di Dio:

“Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso, / dalli occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta della nostra effige; per che ‘l mio viso in lei tutto era messo” (Par. XXXIII 127-132).

Questo ultimo ineffabile mistero, a Dante non è dato di penetrare in alcun modo. Per questo “All’alta fantasia qui mancò possa” (Par. XXXIII 142)”. E possiamo accontentarci come lui, se abbiamo almeno avvertito, come lui, il “profumo di Dio” .

Il quesito che intendevo porre alla “marea” di ipotetici lettori di Dante di cui ho parlato sopra è l’interpretazione di quel verso “di tre colori e d’una contenenza”. Ho consultato e confrontato decine di commenti, recenti e meno recenti, buoni e meno buoni. Scelgo tra i più classici il famoso e abusato Natalino Sapegno e tra i più usati e i più lodati oggi il Bosco-Reggio. Ma vi aggiungo anche il commento mondadoriano della Commedia, firmato da una grande dantista come Anna Maria Chiavacci Leonardi, che mi permetto di classificare tra i più alti in assoluto. Ebbene in tutti e tre questi commenti, e in tutti gli altri consultati (e consultabili), le parole “e d’una contenenza” vengono interpretate: “della stessa dimensione”, di una uguale circonferenza, di uguale capacità di contenuto ecc. Le formulazioni non sono tutte identiche: prevale alle volte l’idea della stessa dimensione, altre volte quella dello stesso contenuto. Ma in ambedue i casi non si sfugge al fraintendimento del testo dantesco, che diventa addirittura inconsapevole ma schietta eresia teologica.

Se infatti i tre cerchi di colori diversi sono dotati ciascuno di qualità distinte (dimensioni, capacità o altro) non siamo più di fronte al sublime mistero della Trinità di Dio, ma alla banalità di “tre dei”. E, con l’unica eccezione di un celebre (ma non molto riconosciuto) commentatore del primo Novecento, siamo di fronte alla superficialità di chi, credente o meno, non ricorda che Dante la teologia la sapeva quanto Tommaso e non avrebbe accettato pressapochismi come questi, a questo livello. Qual è allora l’interpretazione del passo dantesco?

Occorre dire che il Poeta, a questa altezza del suo poema, raggiunge dei vertici di fantasia che qualcuno, erroneamente, ha creduto di poter collocare all’altezza dei canti degli angeli, ma che qui diventano indispensabili. La verità teologica da rendere è che in una unica Natura sussistono tre Persone divine. Dante cerca di suggerire una tale verità, immaginando tre cerchi di tre colori diversi che “insistono sulla stessa identica superficie”. Cosa che sarebbe ora facile rendere con le attuali tecniche della fotografia e del colore, ma che per Dante dovette costituire veramente uno dei suoi più alti colpi di genio. Si pensi che persino il Catechismo della Chiesa Cattolica da Pio X in poi parla di “ tre Persone uguali e distinte” riferendosi al mistero di cui stiamo parlando. Ma “uguali” in che modo? in che misura? Più corretta la Dottrina precisa: “tre Persone distinte e una unica sostanza”. Ed è esattamente quello che il Poeta ha suggerito con l’immagine dell’unico identico spazio e dei tre diversi colori contemporaneamente presenti.