È fresco di stampa La pietra e la cattedrale. Una lettura della “Divina Commedia”, di Gianluca Zappa (Edizioni di Pagina, Bari 2021). Proponiamo alcuni stralci della prefazione di Valerio Capasa.

Dante è stato un genio. Sì, ma non basta: è stato anche un salvato. Un genio salvato.

Avanza qualche spanna più in alto di tutti, fra gli altri geni della poesia. E noi, che siamo capitati in un inferno “d’ogne luce muto” pari a quello che lui immaginò nell’oltretomba (giacché “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni”, come osservò Italo Calvino), ci sorprendiamo a ritrovarlo ancora “qui”, vivo.



Un’anima segnata dalla sorte (l’amore impossibile e l’esilio, per non citare che i due eventi più noti) e che pure avanza quasi trionfale, ferita ma invincibile. “Poeta del mondo terreno”, secondo la felice definizione di Erich Auerbach, ci sconvolge con una domanda insospettabile: non se esista la vita dopo la morte, ma se possa essercene qui, sulla terra, in questo inferno; se c’è vita, insomma, anche prima della morte, dove troppo spesso latita, nei giorni che si susseguono lamentosi. Tra i suoi versi sfolgora invece una instancabile trasfigurazione di canto: “ché quivi per canti / s’entra, e là giù per lamenti feroci” (Purgatorio XII, 113-114). Tanto che, davanti a questa presenza così stranamente viva, ci solleviamo di scatto come il padre di Guido Cavalcanti (Inferno X, 52-60):



Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”.

Come mai Dante continua a camminare tra di noi, in “questo cieco / carcere” del nostro tempo? Come mai risplende perfino nell’angustia delle case quando il lockdown non ci permette di “riveder le stelle”, così come, del resto, il mondo intero è anch’esso limite insopportabile, quando non si apre a orizzonti eterni, infiniti, metafisici? Sarà merito esclusivamente della sua peculiare “altezza d’ingegno”?



La risposta dantesca spiazza: forse Cavalcanti sarà stato geniale quanto lui, ma il problema non è questo. Ancora Calvino, in una delle Lezioni americane, prendeva spunto da una breve novella del Decameron dedicata proprio al primo amico di Dante per condensare in un’immagine il compito urgente dell’intelligenza: la leggerezza (“una leggerezza della pensosità”, a essere precisi, che riesce a “far apparire la frivolezza come pesante e opaca”). Nella pesantezza di questo mondo serve un salto alla Cavalcanti, il guizzo dell’intelligenza, capace di parole imprevedibili.

Eppure “qui”, quando le giornate ci fanno tremare le gambe e non troviamo la forza di spiccare il volo, quando gli ostacoli si ripresentano identici e “per poco / il cor non si spaura” davanti alle tre (o più) fiere che ci sospingono all’indietro nella “selva oscura”, quando ci affossiamo schiacciati da una marea di incombenze ma avendo perduto “la speranza de l’altezza” (Inferno I, 54), come facciamo a saltare se ci manca il lampo, se ci manca il genio? Ecco come risponde Dante (Inferno X, 61-63):

E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

“Da me stesso non vegno” vuol dire che, se Dante ha camminato, se arriva fino a noi, è perché la sua genialità è stata salvata. Non si è salvato da se stesso, per la sua intelligenza, per la sua tenacia, per la sua opera. “Qualcuno ‘si muove’ verso Dante e allora lui stesso si muove”: se può arrivare in paradiso è perché il paradiso era andato ad acchiapparlo. Difficile accettarlo da parte nostra, così pervicacemente dualisti dopo secoli di separazione fra il cielo e la terra, l’ideale e il reale, ma fu attraverso (e non oltre) la vita che egli conobbe nientemeno che Dio: “Dio mi ha raggiunto, mi ha preso, mi ha assunto in sé, mi ha cullato”.

Così scrive Gianluca Zappa, che in queste pagine non mostra appena una notevole “altezza di ingegno”. Anche lui, come Dante, è un uomo che non ha smarrito la “speranza de l’altezza”, un uomo che da se stesso non viene. Racconta le terzine dantesche come pietre incomprensibili senza un occhio puntato sulla cattedrale, e può farlo perché la sua vocazione di insegnante e il suo acume di lettore sono pietre dentro la cattedrale della sua vita di uomo salvato, che ci fa zoomare su singole parole non per tirarci giù (come nelle sfiancanti note di troppe Commedie, che zavorrano il viaggio e addio cielo), ma per spingerci alla “speranza de l’altezza”.

A dirla tutta, osserva l’autore, le parole “non muovono davvero un essere umano che si è bloccato”: non sarà un libro a salvarci. La poesia non è il paradiso, né porta in paradiso (Virgilio, non a caso, rimane drammaticamente fuori dalle sfere celesti): suscita, piuttosto, la nostalgia del paradiso, strappa al nulla della selva oscura, illumina “come quei che va di notte, / che porta il lume dietro” a beneficio di chi – come noi – lo segue (Purgatorio XXII, 67-68).

Le parole sono pietre di una cattedrale: non è la singola pietra a farci tremare di meraviglia, ma la bellezza della cattedrale. A una condizione, ovviamente: che non vi entriamo come esploratori culturali, ma come pellegrini, affamati di senso, di salvezza. Gianluca Zappa non si aggira tra i meandri dei versi danteschi come un curioso, ma si ferma davanti alle sue parole e ci prega dentro, scavando nelle pietre perché portino a galla il loro segreto.

Pietra dopo pietra scopriamo che Dante può venire a prenderci qui dove siamo, per accompagnarci “ad statum felicitatis”: a patto di trovare “viventes in hac vita”, ovviamente. Perché sono uomini vivi (pellegrini) a poter diventare lettori intelligenti. Anzi, no: salvati.