Il romanzo La ricreazione è finita di Dario Ferrari (Sellerio, 2023) è una gradevolissima novità letteraria di quest’anno. L’autore quarantenne, viareggino, ambienta nella sua città la storia di un ragazzo che a trent’anni, con una laurea in lettere lungamente perseguita e faticosamente conseguita, non ha ancora né lavoro sicuro, né una casa, né ha in progetto o intenzione di averne. Un inetto di provincia. Passa il tempo con una sgangherata compagnia di amici del bar, irresponsabili come lui, esattamente quello che una volta si sarebbe chiamato vitellone.
Un po’ per ripicca verso il padre, un po’ per gioco, tenta un dottorato di ricerca all’Università di Pisa e, per una serie di coincidenze banali e comiche, lo vince. Il professore che gli fa da tutor, autentico barone accademico, lo sbatte a studiare la vita e l’opera di un terrorista viareggino degli anni di piombo, alla ricerca di fantomatiche opere scritte da costui, senza sapere neppure se esistano o no.
Si tratta di una serie di elementi e personaggi che innescano una storia divertente, gustosa, acuta nel giudizio; si aggiunga la capacità di Ferrari di scrivere in una lingua fluida e canzonatoria insieme, ma anche elegante nell’ironia per capire che non si pone nessun ostacolo al lettore, al quale non rimane che godersi la lettura, spesso ridendosela di gusto. Ferrari è anche evidentemente documentato per quanto riguarda la letteratura, il che gli permette di trasferire il suo sguardo nei personaggi e dare giudizi persino sferzanti, come quello su Gadda.
I piani narrativi del romanzo sono tre: la provincia, coi suoi ritmi e riti goliardici e caustici; l’università, con le sue regole e gerarchie; il terrorismo, quello della storia d’Italia che, quando l’autore è nato (1982), stava già lasciando il posto all’era dell’edonismo e della società dello spettacolo. In particolare la storia del terrorista, che il protagonista ricostruisce come tesi di ricerca di dottorato, è un romanzo dentro il romanzo, un po’ come quella della Monaca di Monza dentro i Promessi sposi: un lungo inserto in cui la banda di terroristi di provincia, provenienti anch’essi da Viareggio, rispecchia il gruppo di amici da bar del protagonista; le loro azioni stanno a metà strada tra l’impegno rivoluzionario e la goliardata da bar.
In realtà il filo nascosto del romanzo è il bovarismo, che il dizionario definisce come “atteggiamento psicologico tendente a valorizzare la fantasia e l’istinto fino alla costruzione di una personalità fittizia in contrasto stridente con la realtà”. Insomma madame Bovary, da cui il termine proviene, crede di essere una signora di rango meritevole di grandi amori e ricchezze e invece è una provincialotta che viene sfruttata da alcuni amanti grezzi e cinici e poi gettata via. Anche nel romanzo di Ferrari tutti i bovaristi fanno una brutta fine e soprattutto una brutta figura. Il protagonista scopre di non valere granché né come studioso né come amante e neanche come rivoluzionario, ma va ancora peggio a tutta la corte di dottorandi e compagnia bella che fanno da cornice al barone universitario, sul quale si abbatte il sarcasmo finale e più acuto. Si salvano solo i personaggi femminili, la fidanzata, l’amante del terrorista, persino la madre del protagonista, come spesso accade ormai nei nostri romanzi. Personaggi di altra levatura e dignità, rispetto ai loro compagni: insomma ci viene suggerito che oggi madame Bovary è un uomo.
Le due categorie principali, accademici e terroristi, ne escono a pezzi. Sull’università, in particolare le facoltà umanistiche o quel che ne resta, c’è solo da sperare che Dario Ferrari (che pure ha svolto un dottorato di ricerca) abbia esagerato, ma il dubbio è che invece sia tutto reale: nel romanzo vi insegnano docenti che passano per esperti “mondiali” di argomenti che, in tutto il mondo, interessano due-tre persone; si scrivono tesi e articoli in cui la parte importante sono le note, che servono a citare i propri protettori e a ignorare i loro avversari; si parla di rapporti e temi interni, inutili, astratti dal mondo, dando al termine “accademico” il senso peggiore che ci viene in mente quando lo utilizziamo.
I terroristi non ne escono meglio: velleitari e violenti, non sanno calcolare le conseguenze delle loro azioni e si muovono un po’ come gli scalcagnati “amici miei” della serie cinematografica diretta da Monicelli. Ciò non impedisce di rivelarci che alla fin fine i terroristi nostrani furono soprattutto polli di allevamento di quelle stesse università e di quei baroni che, visto il disastro degli anni di piombo, si sono riciclati nelle facoltà che li avevano indottrinati alla rivoluzione. Bovaristi al quadrato.
Dario Ferrari, parlando in pubblico del suo romanzo, tende a considerarlo modestamente come un racconto di provincia. Invece è molto di più: un arguto spaccato di un’epoca della nostra storia, su cui troppo a vanvera s’è detto, condotto con un’ottima capacità di descrizione psicologica di un tipo umano ancora una volta molto nostrano e di neanche troppo velata critica dell’andazzo delle facoltà umanistiche. Una lettura salutare in un periodo in cui vanno di moda romanzi sulla crisi dei rapporti familiari, la fluidità di genere e altri stucchevoli temi identitario-sessuali, come indicano i premi letterari (si veda la cinquina dello Strega) e i cataloghi degli editori maggiori. Invece Sellerio, che non è un editore di provincia perché Palermo è una metropoli, ma neppure un “grande” editore, da un po’ di tempo tira fuori dal suo lavoro una narrativa davvero nuova, convincente, che si spera sempre più riconosciuta: si pensi, per fare solo un esempio, a Bernardo Zannoni. Indice del lavoro di una squadra che ci sa fare. Chapeau.
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