“Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv 11, 25-26).
Fin dai suoi inizi, la fede cristiana ha riconosciuto nella Pasqua l’evento fondativo di una nuova realtà nello spazio dell’essere. Assolutamente nulla di solo interiore, limitato alla regolazione dei debiti di coscienza di un io isolato con il Dio giudice severo del mondo, ma un fatto di portata cosmica, dinamicamente esplosivo, capace di spezzare il ciclo dell’incessante ripetizione di un destino bloccato su sé stesso, spalancando tutto ciò che esiste a una rivoluzione che restituiva un senso al procedere inesorabile della storia nel flusso del tempo (“circuitus illi iam explosi sunt”: Agostino, De civitate Dei, 12, 21).
Se la disobbedienza dei progenitori aveva introdotto la ferita del male e della divisione nel tessuto della vicenda umana, nell’irrompere del Risorto si identificava il germe di un riscatto aperto alla grazia di una comunione ristabilita sulle sue basi, orientata alla ricompaginazione dell’intera comunità dei viventi nella salvezza di un unico corpo trasfigurato: una “cosa sola” di matrice divina, avvolta dall’abbraccio infinitamente misericordioso di Dio-carità, passato attraverso il sacrificio del Signore innalzato sul legno della croce, al centro di un universo riconciliato con ciò da cui aveva preso origine.
Le dimensioni sovranamente oggettive, universalistiche e globali, del salto di qualità provocato dalla risurrezione di Cristo dentro la catena della vita del mondo sono illuminate con limpida evidenza dal pensiero dei Padri: quello che, in modi particolarmente felici, padre Henri de Lubac ha ricostruito nella memorabile sintesi dedicata al genio “unificante” dello spirito cristiano primitivo, ricollocandolo all’interno dell’orizzonte totalizzante, veramente “cattolico” nel senso proprio del termine, a cui si legava la sua aspirazione a includere ogni frammento di esistente, ogni minima briciola di autentica esigenza umana. “Cattolico” non per delimitazione confessionale ristretta, ma come marchio identificativo di una fresca ispirazione sorgiva, modellata dalla coscienza che dell’apertura alla “cattolicità” faceva il vettore trainante della rigenerazione dell’intera creazione terrena, al di là e prima di ogni dialettica interna, di ogni divaricazione di accenti e di ogni conflitto tra fratelli insinuatisi, con l’andare del tempo, nella trama dell’identica dottrina e nella condivisione della medesima mensa eucaristica. Ci stiamo riferendo a Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma (Parigi 1938; prima edizione italiana Jaca Book, 1979): un classico opera di un grande maestro, uno di quei testi sempre fecondi a cui è utile ritornare per procedere sicuri sui passi di ogni nuovo sforzo di immaginazione.
Il quarto capitolo dell’affresco di de Lubac mette a tema il problema della “vita eterna”. Fin dal suo attacco iniziale è fulminante, perché fa emergere l’inconsistenza di ogni riduzione in senso individualista del concetto di sopravvivenza dell’anima, di premio e di accesso alla “visione dell’Essenza divina” inaugurato dall’avvenimento della salvezza di Cristo.
L’unicità esclusiva dell’io come oggetto supremo dell’amore redentore del Dio che si è fatto carne non poteva essere scissa, nella prospettiva dei vescovi pastori e dei maestri di vita cristiana dei primi secoli, dall’incardinamento del destino di felicità dell’io-persona nell’universo sinfonico della communio, dentro quel “mistero d’unità” di cui “la creazione fu il preludio” (è il tema delle prime sezioni del volume) e che, sfigurato dai ribaltamenti del peccato, era stato messo nelle condizioni di tornare a risplendere nel cuore del mondo dalla risurrezione di Cristo-nuovo Adamo, a sua volta prolungata dalla continuità del suo corpo sacramentale che è la Chiesa. Da qui derivava l’inclinazione risolutamente sovrapersonale dell’escatologia, che de Lubac ripropone, con linguaggio attualizzato fino a rasentare il rischio del fraintendimento equivoco, sottolineandone la densità “sociale” delle implicazioni: il che vuol dire, in ultima analisi, insistere sulla visione della persona umana come essere in relazione, sul primato del noi in armonia con la cura e la promozione dell’io, sulla riconversione nell’unità come fonte di una umanità risanata dalle sue lacerazioni dolorose.
“Nella tradizione cristiana – ricorda de Lubac – il cielo è sempre stato concepito sotto l’analogia di una città”. La santa Jerusalem è la figura profetica di questo Paradiso riappacificato: una “città armoniosa”, dove “tutti regnano con il grande Re” (Agostino), città di Dio “edificata dal congregarsi dei suoi santi cittadini” (Gregorio Magno). I santi “vi vivono in società, vi gioiscono in comune: socialiter gaudentes, e attingono la loro gioia da questa stessa comunità”.
I passaggi successivi completano il quadro tracciato. La “felicissima societas”, la “coelestis beatorum mutua caritativa societas” era sì configurata come una “città compatta”, come “una sola casa”: una “società ristretta come una famiglia unica, rannicchiata sotto un solo tetto”, quello della “redempta familia Christi Domini”. Ma nello stesso tempo essa si concepiva “dilatata all’estremo”, chiamata a “contenere nelle sue mura” la totalità delle creature, a realizzarsi, “nella sua perfezione”, appunto come catholica societas. La vita eterna in cui si entra sulle orme del Risorto che agisce nella vita del mondo equivaleva a una forza di attrazione proiettata, missionariamente, all’infinito, verso i confini ultimi del cosmo. Tutto era destinato a esserne investito, e solo il puntare a questa possibilità ideale di riassorbimento nella pienezza di una “unità perfetta” segnava il traguardo della corsa dei secoli fino al secondo avvento del Figlio dell’uomo.
“Le prime generazioni cristiane avevano un sentimento vivissimo di questa solidarietà di tutti gli individui e delle diverse generazioni nel cammino verso la medesima salvezza”, annota de Lubac.
Spingendosi in avanti in senso radicale, alcuni, come Origene, arrivarono a congetturare che persino Cristo, allusivamente parlando, non potesse godere fino in fondo della beatitudine perfetta finché uno solo dei membri che vi erano destinati restava “più o meno invischiato nel male o nella sofferenza”. La communitas degli eletti doveva essere riempita in ognuno dei ranghi preordinati dalla sapienza divina per ricomprendervi le ondate delle emergenze di ogni epoca. E questo non poteva che avvenire sul filo di uno sviluppo nel tempo.
Secondo credenze molto diffuse, rintracciabili anche in Ambrogio, solo al culmine finale della storia i beati avrebbero potuto essere ammessi alla pienezza della gloria divina, perché solo allora sarebbe stata ricomposta l’universale “assemblea dei giusti”. Anche i testi liturgici dipingevano l’ottavo giorno, quello del tempo eterno, come la sintesi inseparabile del “numero completo dei santi” e del “godimento consumato”. Lo aveva già preconizzato Agostino, di nuovo, nei suoi sermoni. “Ora noi vediamo attraverso uno specchio, in enigma e in una maniera parziale. Ma quando l’uno e l’altro popolo, alfine purificati, alfine risuscitati, alfine coronati, alfine trasfigurati per l’eternità vedranno Iddio faccia a faccia, quando non ci sarà più che il solo Israele…, allora lui stesso sarà visto da Dio”: con lo sguardo della simbiosi totalmente trasparente, senza più veli e diaframmi di separazione.
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