Il 7 agosto del 1990, a Roma, un martedì qualsiasi d’estate, una ragazza va al lavoro, come tutti i giorni; indossa un top in sangallo, pantacollant e porta con sé un ombrellino rosa, visto che poche ore prima c’è stato un acquazzone e il cielo minaccia ancora pioggia. 

Quella ragazza si chiama Simonetta Cesaroni: il suo nome diventerà famosissimo, perché, purtroppo, si tratta della vittima del cold case forse più celebre di tutto il secondo dopoguerra italiano. La giovane, infatti, nel pomeriggio deve svolgere alcuni compiti di segreterariato e amministrazione nel quartiere Prati, in via Carlo Poma 2, alla sede dell’Aiag, l’associazione che gestisce gli ostelli della gioventù. Le ferie si avvicinano, e Simonetta è un poco contrariata e preoccupata, perché il suo ragazzo ha espresso la volontà di trascorrere una vacanza in Sardegna, ma con gli amici e non con lei; la prospettiva di trascorrere i giorni di agosto riservati al mare, al sole, al divertimento da sola o soltanto con le amiche non la rende particolarmente entusiasta; ma in fondo si tratta di piccole grandi contrarietà che ogni ventenne o quasi si trova a dover affrontare. Ben altro è quello che la aspetta alla fine della giornata: infatti, quella sera Simonetta non tornerà a casa; verrà trovata poche ore dopo, uccisa da un profluvio di pugnalate, ventinove, proprio nell’ufficio dove era al lavoro nel pomeriggio.



Il caso, nonostante indagini su indagini, resterà ed è tuttora insoluto. A questo delitto Igor Patruno dedica Il delitto di via Poma trent’anni dopo (Armando, 2020). Patruno, giornalista e scrittore, si è già dedicato a questo inquietante caso di cronaca, con Via Poma. La ragazza con l’ombrellino rosa (2010). Qui si rimette al lavoro sul caso, ricostruendolo, smontandolo e rimontandolo per oltre trecento, densissime pagine, di analisi delle testimonianze, dei referti autoptici, degli atti processuali: ci troviamo quindi di fronte a una selva intricatissima di indizi, dichiarazioni ora contraddittorie ora smentite, piccole incongruenze o misteri, a partire dalla scena del delitto, in cui troviamo i segni di quello che i criminologi chiamano over killing, ovvero una carica aggressiva talmente forte da accecare letteralmente l’aggressore, che è andato ben oltre i fendenti strettamente necessari a uccidere la vittima.



Ma dopo  questa fase emotiva fortemente alterata, l’analisi della scena del delitto sembra anche rivelare una gelida lucidità che ha portato a ripulirla il più accuratamente possibile: eppure, anche questo recuperato autocontrollo e scrupolo razionale devono essersi incrinati, dato che chi ha ripulito si è dimenticato di cancellare gli sbaffi di sangue sulla porta. Come sottolinea Patruno, “certo, l’omicidio perfetto non esiste, un errore è sempre possibile. Poi, come recita un detto popolare, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”(p. 191). Eppure, continua l’autore, “la lettura di quelle tracce sembra proprio volerci raccontare una storia diversa. Il colpevole non ha rassettato, non ha ripulito, non ha architettato alcunché. Forse ha chiesto aiuto, forse è semplicemente sparito” (ibid.).



Pertanto, due sono gli scenari possibili: se si fosse trattato di un omicidio compiuto da qualcuno che viveva nel complesso residenziale di via Carlo Poma, allora tutto si sarebbe svolto all’interno del condominio. Invece, se l’intervento criminoso fosse venuto dall’esterno, lo scenario sarebbe più complesso; e, in ogni caso, questo “qualcuno” si sarebbe dimenticato di controllare la porta. Sarebbe pertanto da escludere ogni intervento di un ipotetico emulo del Signor Wolf, che “risolve problemi”, come il famoso personaggio di Pulp Fiction; o meglio, non si sarebbe trattato di professionista, ma di un “risolvo problemi” all’amatriciana, per così dire. Se poi si fosse trattato di personaggi estranei all’omicidio, entrati in scena casualmente, lo scenario sarebbe più comprensibile, perché a costoro delle tracce lasciate dall’assassino non sarebbe importato nulla.   

Al netto di queste considerazioni, l’identità dell’assassino è sempre stata un mistero: i sospetti e le indagini si sono appuntati prima su personaggi interni al palazzo di via Poma; poi su un misterioso personaggio, forse conosciuto attraverso un servizio di messaggistica antesignano dei nostri social e delle chat, però le indagini non portarono a nulla di concreto; un foglietto con un’annotazione misteriosa trovato sulla scena del delitto sembrò aprire uno scenario forse promettente, ma anche qui le indagini si arenano in un nulla di fatto; anni dopo persino il fidanzato, Raniero Busco, venne processato e poi, il 26 febbraio 2014, assolto in Cassazione.

Restano, evidenti e inestricabili, parecchie discrasie, che Patruno elenca con minuzia, a partire dall’ultimo incontro di Simonetta con Salvatore Volponi, il datore di lavoro della ragazza, incontro che Volponi colloca ora il 6 agosto, ora martedì 7 agosto; resta sul piatto “il mistero infinito della Golf”, ovvero il fatto che a un mese dall’omicidio, dopo una messa commemorativa per Simonetta, con amici e parenti della ragazza, un’amica, Annarita Testa, accolse una confidenza da Anna Di Giambattista, la madre di Simonetta, secondo la quale la notte del 6 agosto la figlia sarebbe rientrata tardi, accompagnata con una Golf chiara; fatto che sarebbe insignificante, normale nella quotidianità di una ragazza di vent’anni, se non fosse che quella ragazza sarebbe stata uccisa il giorno dopo; e poi varie telefonate, la cui ricollocazione temporale e contestualizzazione è sempre stata incerta e difficoltosa. 

Quello di via Poma è un delitto apparentemente insolubile, certamente a oggi irrisolto; quello che resta è il fatto che una ragazza è stata uccisa, e dopo trent’anni ancora non si sa per mano di chi e perché. Dunque l’assassino, se nel frattempo non è morto, ancora si aggira libero, e la famiglia non ha ottenuto alcuna giustizia.