Jacques Derrida, nel corso di un’intervista sulla presenza di Heidegger in Francia, ha dichiarato di aver cominciato a leggere Martin Heidegger, passando attraverso Sartre, intorno agli anni 1948–1949: sono gli anni della formazione, ma in Francia il filosofo tedesco è ancora poco studiato. Derrida ricorda anche di aver svolto un corso su “La storia in Heidegger” e di aver progettato un libro che non verrà mai scritto, nonostante, proprio a partire da questi anni, il confronto con il “mago di Messkirch” (come lo avevano soprannominato gli studenti) si sia fatto sempre più intenso.



Finalmente, dopo più di cinquant’anni, il corso svolto all’École Normale Supérieure (interamente redatto) viene pubblicato dalla Jaca Book (che prosegue così il progetto editoriale di pubblicazione di tutti i seminari e i corsi di Derrida) con il titolo Heidegger. La questione dell’Essere e la Storia. Corso dell’ENS-ULM 1964–1965, nell’accurata ed efficace traduzione di Raoul Frauenfelder.



Diversi sono i motivi che rendono questa pubblicazione importante sia per la cerchia degli studiosi, sia per quanti sono appassionati alla filosofia del nostro tempo.

Anzitutto, con questo corso (il primo, tenuto all’École), è possibile entrare nel laboratorio filosofico di Derrida e assistere, quasi in presa diretta, al lento costruirsi di una riflessione oggi riconosciuta tra le più significative del panorama filosofico contemporaneo. In seguito, le dieci lezioni che dal novembre del 1964 al marzo del 1965 risuoneranno in aula, permettono di “monitorare” un momento della storia del pensiero filosofico francese in cui, a differenza di quanto accaduto in Italia (grazie a Pietro Chiodi, la principale opera di Heidegger, Essere e tempo, era stata interamente tradotta già nel 1953), il filosofo tedesco è ancora solo parzialmente conosciuto.



Essere e tempo, nel 1964, era stato tradotto in francese solo parzialmente, e Jacques Derrida, nel corso delle sue lezioni, presenterà spesso, traducendole dal tedesco, le sezioni dell’opera (in particolare le ultime) non ancora note.

Non è facile rendere conto della ricchezza e dell’originalità della lettura derridiana in poche righe, ma è possibile comunque segnalare che essa riconosce nel progetto filosofico di Heidegger non tanto la volontà di fondazione di un nuovo pensiero dell’essere, quanto la “distruzione” (termine usato letteralmente dal filosofo tedesco) della tradizione dell’essere in nome del problema dell’essere stesso che la storia (qui il secondo termine che articola il corso di Derrida) ha occultato o, meglio, ridotto a mera questione dell’ente (vale a dire ciò che esiste). Ma, incalza Derrida, che rapporto c’è tra l’essere e la storia?

La domanda appare centrale soprattutto se si tengono presenti le “ipoteche” di Jean–Paul Sartre e di Alexandre Kojève che, in maniera sicuramente riduttiva, avevano ricondotto il pensiero di Heidegger nell’alveo dei tanti esistenzialismi che hanno caratterizzato il pensiero filosofico della prima metà del secolo scorso. Derrida, che intende liberare Heidegger da simili ipoteche, formula la sua domanda sul rapporto tra l’essere e la storia a partire da un’intuizione centrale, che permette, tra l’altro, di comprendere uno dei fuochi teorici fondamentali del percorso del filosofo algerino (come mostrano le opere successive e le ancora numerose incomprensioni che le avvolgono): “in quale linguaggio potrà esporsi la questione dell’essere nel suo rapporto con la storia?”.

La prospettiva adottata da Derrida si rivela feconda per più ragioni: parlare di linguaggio, infatti, è già da subito parlare di storia, ma la tradizione metafisica che, per esempio, ha pensato all’uomo come composizione di anima e corpo o come ente creato da un altro ente (Dio), non lo ha pensato a partire dal linguaggio o, meglio, non lo ha pensato come “generato” dal linguaggio. Il pensiero che, proprio durante il XX secolo, ha restituito al linguaggio una funzione non esclusivamente comunicativa, ma essenziale, strutturale, trova così nelle domande che Derrida rivolge ad Heidegger un’attenzione che presto diventerà uno snodo centrale dello stesso cammino di pensiero del filosofo algerino.

Il lento, sinuoso dipanarsi delle lezioni, infatti, individua con penetrante acutezza l’insieme di nomi che Heidegger attribuisce all’essere quando questo si “dice” nel linguaggio, e scopre che tutti questi nomi (“casa”, “rifugio”, “abitazione”, “focolare”) costituiscono delle metafore che sono, a loro volta, il portato principale di quella metafisica che si tratterebbe di distruggere. La grammatica è una metafisica (non si può oltrepassare, come scrive Derrida, “l’aderenza della metafisica alla pelle del linguaggio”), il che equivale a dire che il linguaggio non può essere in nessun modo considerato come qualcosa di astorico o fuori dal tempo, ma è il precipitato di tradizioni che lo formano e che contribuisce a formare: le metafore che caratterizzano i linguaggi culturali (anche quelli scientifici) formano la storia universale che, come ha detto da qualche parte Borges (citato da Derrida), “non è forse altro se non la storia di alcune metafore”.

Anche il linguaggio di Heidegger, nonostante la sua volontà di smascheramento delle metafore attraverso la ricerca dell’“essenza” della metafora, non può fare a meno di adottare un linguaggio “metaforico”, anche quando utilizza termini come “coscienza”, “pulsione”, “certezza” che, di primo acchito, sembrerebbero situarsi fuori di esso.

La stessa idea di “tradizione” e, dunque, di storia, come viene mostrato nel corso delle lezioni in cui Derrida legge sia Heidegger, sia Hegel (considerato come il vertice del pensiero metafisico), sembrerebbe essere un’idea ancora metaforica, totalmente ancorata e dipendente da una concezione del tempo in cui a dominare è il “presente”: l’essere e la storia si sono date e si danno come metafore che lentamente si distruggono (come noto, ad un certo punto del suo cammino di pensiero, Heidegger inizierà a scrivere la parola “essere” barrandola con una croce), ma se tale Destruktion è in atto, allora “si può parlare di una fine della storia e di una morte dell’essere che non sono nientemeno che ciò che, con un’altra metafora, chiamiamo a sua volta avvenire”.