Non esiste il delitto perfetto, come ci insegnano la criminologia e la cronaca nera, tuttavia la storia narrata nel giallo di Luigi Borlenghi, Detective tacco 12. Delitto imperfetto all’hotel Moderno (Ares, 2023) si snoda per oltre 300 pagine tenendo appiccicato il lettore fino alla conclusione. Protagonista non è tanto il delitto o il suo autore, ma chi indaga, Anna Bresso, commissario di polizia a Milano. Il tacco 12 del titolo è si può dire il suo distintivo: giovane donna bionda ed elegante, non rinuncia mai al suo stile, a controllare il suo look in ogni occasione e tutto questo fa un po’ a pugni col ruolo, che presuppone un tipo umano rude, poco attento all’apparenza, naturalmente meglio se maschio.
Anna ama il suo lavoro, vi si dedica con passione, determinata e animata da un forte senso di giustizia. Appena arrivata alla questura di via Fatebenefratelli è chiamata ad indagare su uno strano delitto, avvenuto non a Milano ma sul lago di Lecco. Ecco quindi che oltre all’azione in sé, il lettore è condotto a esplorare i paesaggi del lungolago, i nitidi paesini con la loro vita minuta e il chiacchiericcio pettegolo degli abitanti. Altrettanto accattivante è la descrizione di Milano, dei quartieri e delle vie frequentati o attraversati da Anna. Una sapienza descrittiva che fa pensare alla attenzione manzoniana per i particolari.
Anna non è una persona fragile, anzi non rifugge dal potere, visto come strumento utile a sistemare le cose e sconfiggere il male. Tuttavia spesso è preda dell’incertezza, si interroga sul senso del suo stesso lavoro e allora dialoga con un antico Crocifisso, che la nonna Teresa le ha lasciato insieme alla fede semplice e solida della tradizione. La commissaria si definisce “praticante osservante credente a sprazzi”. Il Crocifisso risponde alle sue domande a volte con una certa ironia, a volte ponendo altri interrogativi.
Anche alla coinquilina Giulia, che fa la neurochirurga, tocca ascoltare i dubbi e le perplessità della vecchia amica. La convivenza tra le due donne, intelligenti e in carriera, produce inevitabilmente qualche screzio che però subito rientra.
L’intrigante racconto non ricorre all’orrido, al torbido neanche quando descrive il male, e mantiene una certa discrezione, potremmo dire leggerezza, nel raccontare le vicende amorose della protagonista. Così Anna ricorda sempre con nostalgia il suo grande antico amore, Paolo, il quale poi è diventato don Paolo e pian piano si accorge della nascita di un nuovo amore, quello per il collega Luca Beltrami che prova ammirazione per il commissario e quasi invidia per il suo modo di affrontare la realtà.
La fede e la religiosità entrano nella storia – cosa apprezzabile perché assai raramente presente nei romanzi o nel cinema – ma vi entrano come in punta di piedi. Forse non si può parlare di un obiettivo apologetico, ma di uno scritto che lancia un messaggio tanto realistico quanto positivo: il male c’è ma non vince, anzi è stato già vinto.
L’autore, Luigi Borlenghi, cita a questo proposito sant’Agostino: “Solo ciò che allieta la mente la nutre”. Ma chi è l’autore? Milanese, ha lavorato per quarant’anni nell’ambito delle risorse umane in un gruppo assicurativo. Pur non avendo alle spalle studi umanistico-letterari – ma a scuola gli piaceva fare il tema, racconta – ha scritto una serie di storie brevi: questo giallo è il primo ad essere pubblicato.
Il gusto di raccontare gli ha permesso di scoprire un talento che era rimasto nascosto per decenni. In un’età in cui tanti si ritirano dalla vita attiva, Borlenghi si rimette in gioco e grazie all’ambito di relazioni che in tutti questi anni lo ha accompagnato – quello che lui chiama il suo “villaggio” – diventa scrittore.
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