Sulla copertina dell’ultimo libro di Pasquale di Palmo, Breviario delle rovine (Medusa 2021), vi è una foto di Willy Ronis, Fondamente Nuove, Venezia, 1959. Forse di nessuna città al mondo esistono tante fotografie come per Venezia, scattate dai più illustri fotografi, come i veneziani Fulvio Roiter e Gianni Berengo Gardin: ma crediamo che quella di Ronis sia una delle più suggestive che ci sia mai capitato di vedere. In un bianco e nero ingrigito, scorgiamo in primo piano la silhouette di una bambina che solca una passerella; sulla riva, a sinistra, adulti e bambini che conversano, passeggiano o giocano; verso il fondo, altre persone sedute sui pontili; sulla destra, via via più lontani, rematori a bordo di barche. Di fronte, uno scorcio di Palazzo Contarini, più noto ai veneziani come Casino degli Spiriti, a causa di leggende che vi si addensano da secoli.
Il poeta, nato a Venezia nel 1958, pochi mesi prima che la fotografia venisse scattata, ha voluto fortemente questa immagine di copertina. Nella poesia che porta lo stesso titolo della foto, si interroga: “Sarà ancora viva quella bambina / che, qualche mese dopo la mia nascita, / si avventurava sulla passerella / in legno, in bilico tra le bricole // con l’eleganza innata di una silfide / che ignorava quel mondo ancora benedetto / impastato di miseria e bellezza / dove uno spettro rema alla salvezza // e gli abitanti si godono l’aria della sera / contemplando un panorama di mura e di masegni/ contro il vuoto lagunare? Ritagliato / su fondo di cartone, il Casino degli Spiriti”.
Il poeta non vuole che la vita passi: desidera trattenere e far rivivere luoghi e figure rubate dagli anni, come in una foto sbiadita. Da tempo, Pasquale Di Palmo è considerato una delle voci più significative del nostro panorama poetico: l’Accademia mondiale della poesia, con sede a Verona, gli ha tributato un giusto omaggio nello scorso marzo, in occasione della Giornata mondiale della poesia, per mano del critico Paolo Lagazzi.
Questo Breviario delle rovine raccoglie la produzione migliore del poeta veneziano ed è molto di più di un’antologia, come sottolinea Rodolfo Zucco, nella ricca postfazione; in realtà è il poeta stesso che, attraverso una scelta significativa di testi, soprattutto più recenti, ci conduce verso un’interpretazione complessiva della sua opera.
Non si creda che Di Palmo si conceda romanticismi di maniera, così facili nel caso della maliosa città lagunare. In realtà, la sua poesia è popolata da luoghi dell’entroterra suburbano, dai campetti scalcinati della Marghera degli anni 60 e 70, da fabbriche dismesse, palazzoni popolari degradati, dove si affollavano gli inurbati chiamati dall’impetuoso sviluppo industriale; e ancora di più da figure di reietti, abbandonati, emarginati, malati, folli, a cui lo scrittore si sente più vicino, irregolari come lui.
La luce della poesia splende su queste rovine, sulle quali si innalza un breviario, laico e religioso, individuale e comunitario. Giustamente, Rodolfo Zucco afferma che il titolo “allude senz’altro al libro liturgico contenente l’intero Uffizio divino, secondo il rito della Chiesa cattolica romana”, chiamato comunemente Liturgia delle ore, che scandisce i ritmi della giornata. Di Palmo ha selezionato soprattutto testi tratti da due raccolte: Trittico del distacco (2015) e La carità (2018).
La prima segna il ritorno dell’autore alla poesia dopo anni di silenzio ed è fortemente provocata dalla malattia e dalla morte del padre. Alla figura paterna sono dedicati versi strazianti, duri nella rappresentazione del dolore, con accenti quasi espressionistici che fanno pensare a Franco Loi; non a caso qui Di Palmo fa ricorso al dialetto veneziano, per il resto poco usato, come forma di avvicinamento e di omaggio per il padre, ma anche come richiesta postuma di perdono per un dialogo mancato.
Trascriviamo questi versi splendidi: “Ora che non ci sei più /tocca a te, papà, / assistermi dall’alto. / Indirizzare i miei passi / come quand’ero bimbo, / insegnarmi sull’erba a camminare. / Ricominciamo, tienimi / per mano, fa’ che ti sia, / in un’altra vita, / di nuovo figlio”. Ed ancora, nella lingua paterna: “Papà, adesso che no ti ghe xe più, / vorìa dirte / quelo che no so mai riussìo a dirte / co ti geri vivo / co ti gavèvi bisogno / de na parola, de un coccolesso / dai to fioi, / dal to fio più vecio. // Papà, adesso che no ti ghe xe più, / vorìa dirte / quelo che no so mai riussìo a dirte / per pudor / per superbia / perché credevo, mi che leso / e scrivo tanti libri, / de esser megio de ti. // Papà, adesso che no ti xe più, / vorìa dirte / ne la to lingua / ne la lingua che ti parlavi ti / fin da putèlo, / vardandote fisso nei oci, / “Te vogio ben” / e darte un baso, papà, / su la to fronte granda / scavada dai pensieri / che scampa come bisse sora l’erba”.
Anche nella raccolta successiva, La carità, leggiamo liriche altissime, nelle quali scorgiamo un acuto disagio esistenziale, quasi “un manuale del malessere”, ma anche, scrive Paolo Lagazzi, un “senso sacro, radicale della vita”, una “necessità intima della condivisione, di una apertura all’umanità sofferente che sa imprimere a molti versi, a molte frasi, il tocco delle scoperte rivelatrici”.
Nella sua galleria di poveri folli, reali e immaginari, come una Marilyn novantenne, Di Palmo si accosta ai suoi derelitti porgendo loro la mano della carità e della poesia, affiancate nella gratuità totale del gesto. Nella poesia Down appaiono giovani disabili che “si inebriano per un gelato, /piangono per un nonnulla. / In realtà sono loro che dovrebbero / avere di noi compassione”. Sovviene il ricordo del grande inno alla carità di San Paolo, per il quale la carità risplenderà per sempre, “non avrà mai fine”; “ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità”.
A chiudere la raccolta è la splendida Canzone delle torri telemetriche, le antiche postazioni di difesa, ancora oggi visibili sul litorale veneziano. Paesaggi desolati e pure affascinanti, che il poeta percorre annotando “la solitudine / modellarsi sul vento”, “mentre i gabbiani, ignari di ogni desolazione, banchettano / tra la sabbia e la cenere / con rifiuti senza nome”; e lo “sguardo si smarrisce / tra le pareti / riandando al tragitto / che porta al faro / di Punta Sabbioni, / dove mi recavo quando stavo male, / con l’intento di esaurirmi / a forza di camminare”, scrive, attivando suggestioni che rinviano forse alla Dora Markus di Montale.
Di Palmo scriveva questi versi nel 2020, quando infuriava la moderna pestilenza ed eravamo costretti, secondo il triste linguaggio burocratico, al lockdown, alla “distanza sociale”, “agli effetti di una pandemia / che ha connotazioni metafisiche”. In preda a sacrosanti furori, il poeta scatta in un’invettiva: “Dicono che niente sarà più come prima. / Ma com’era questo ‘prima’ / se non vita invivibile, d’accatto, in cui ogni valore / si edifica sul profitto / più bieco, sul più bieco edonismo, / sulla vertigine di giorni / che si susseguono senza senso”.
Sarà così per sempre, diremmo con Foscolo, potente sottotesto di questo Breviario delle rovine, “finché il / Sole risplenderà su le / sciagure umane”. Resterà la carità, e la poesia come forma suprema di carità.
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