Negli ultimi anni i finalisti del Premio Strega, il più importante concorso letterario italiano, non hanno certo brillato per inventiva, originalità e profondità, che possiamo trovare più facilmente negli scrittori stranieri. Quest’anno invece una sorpresa positiva, che nasce anche dal fatto che la vincitrice, Donatella Di Pietrantonio, ha pescato, oltre che nella sua memoria, nella verità di fatti accaduti realmente nel suo Abruzzo, osservati con sguardo acuto e intenso. La stoffa della scrittrice le è stata riconosciuta già nel 2017, con il Premio Campiello per L’Arminuta, da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Giuseppe Bonito.



L’età fragile (Einaudi, 2023) è una storia toccante che, pur avendo come sottofondo la violenza sulla donna, affronta altri temi importanti e scottanti per la nostra società, come le relazioni familiari e i rapporti d’amicizia, in cui emerge “la condizione di fragilità tipica dell’umano”. Fragilità che, come afferma l’autrice, “ogni personaggio tende a pretendere per sé, mentre ogni momento della nostra vita può essere sottoposto all’inciampo, alla caduta e alla sofferenza”. Per questa donna pacata, che sceglie con cura le parole per rispettare tutte le sfumature della realtà, “il ruolo della letteratura è porre delle domande, instillare dubbi. Ma la cosa più importante riguardo alla fragilità è saperla riconoscere dentro di sé”.



Senza la pretesa di insegnare o proporre soluzioni magiche, L’età fragile è un libro che lascia il segno e fa riflettere anche grazie alla scrittura “scabra, vibratile e profonda” che i critici hanno riconosciuto come valore aggiunto alle vicende raccontate. È la ferita dell’abbandono quella che tormenta madri e figlie nel romanzo, ma anche padri e amiche. Acuita dalla difficoltà di riconoscerla e soprattutto di comunicare e condividere, con chi ci è vicino, il dolore per essersi sentiti trascurati e in qualche modo traditi nelle aspettative d’amore.

Vive proprio questo dramma Amanda, la figlia de L’età fragile, che si rinchiude quasi in un bozzolo rientrando a casa, in quel paesino vicino a Pescara, da cui è scappata per raggiungere la “vera vita” di Milano. Si rifugia nella sua camera e non parla quasi più. La distanza con la madre Lucia, da cui pur è tornata, non si giustifica certo con il timore della pandemia, da cui la promettente studentessa è fuggita con l’ultimo treno da Milano, prima che il mondo all’apparenza si fermasse completamente. Lucia la vorrebbe proteggere e insieme far rinascere, anche solo imponendole una sveglia mattutina, quando vede che le giornate della figlia scorrono immobili e uguali senza che la ragazza riesca a fare nulla. Ma lei obietta implacabile: “Non puoi farla scontare a me l’infanzia che hai avuto”, alludendo all’obbligo di alzarsi presto tipico della vita di campagna della generazione dei suoi genitori. Così Lucia deve semplicemente riconoscere che Amanda “si alza solo a ragione, e una ragione non ce l’ha”.



Eppure la madre sa che i problemi non si risolvono né a parole, né con le imposizioni, né con la forza di volontà, come ha ben sperimentato lei stessa da giovane, quando la sua amica Doralice è stata travolta dal dramma che pesa ancora tra di loro e nel paesino di montagna in cui è cresciuta. La morte aleggia nei boschi e nei prati del “Dente del Lupo” dove si è consumata una tragedia che nessuno vuole ricordare né tantomeno riesce a raccontare. La conoscono Lucia, suo padre  e il suo amico Osvaldo, ma nessuno ha detto nulla ad Amanda. Lei la scoprirà ugualmente e saprà reagire tutelando quelle terre in modo nuovo e coraggioso, opponendosi con determinazione ai moderni speculatori. Difenderà con forza quei luoghi apparentemente maledetti per restituirli ai pastori, anche se neppure loro sono innocenti. Non lo era certo quel povero immigrato che viveva con le pecore ai tempi di sua madre ed era costretto “a lavorare come uno schiavo”.

Donatella Di Pietrantonio non ha paura di parlare di violenza e di morte, ma lo fa con rispetto, anche del colpevole come dell’innocente. Del resto è emblematica la citazione di Simone De Beauvoir posta all’inizio del libro: “Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo”. È questa la profondità a cui giunge l’autrice nei suoi dialoghi e nei pensieri che riporta, la gravità intensa di chi non teme di guardare la morte ma non ne fa scempio, perché la considera in tutto il suo valore di destino umano.

Solo chi, come lei, riconosce alla fine della vita terrena, al dramma, al dolore, all’abbandono, una dignità così forte e ineliminabile, può esaltare nelle pagine finali del romanzo la bellezza del concerto quasi riparatore che si svolge addirittura nel luogo del misfatto, al Dente del Lupo. La Di Pietrantonio, che di giorno fa il medico (è dentista) e di notte scrive, ha visto da vicino la sofferenza, perché ha accompagnato sua madre nella malattia che le portava via la memoria.

La vincitrice dello Strega, abituata a curare, tratta le fragilità dell’essere umano con delicatezza, quella che paradossalmente ha imparato dalla sua terra abruzzese così aspra ma luminosa, segnata dalla fatica. Le descrive – quelle fragilità – con pudore, indispensabile per avvicinarsi al dolore umano. Siamo ben lontani dalla superficiale, chiassosa e confusa scrittura che domina tanti racconti contemporanei, che sembrano incapaci di ascoltare la complessità dell’esistenza umana, aldilà dello sbandieramento indecente del dolore, esibito da un certo sistema mediatico. Come afferma un personaggio del libro, il giudice Grimaldi, nel processo che vorrebbe ridare pace e giustizia a quel mondo lacerato, “dove arriva l’uomo, può portare il male”. Ma se riconosciamo le nostre ferite, possiamo forse guarirle.

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