Nelle sue Memorie, Maigret racconta come, un giorno, gli fosse toccato l’ingrato compito di far visitare i locali della polizia giudiziaria a un giovane scrittorello dotato di una certa “giovanile sfrontatezza, tale Georges Sim: una gustosa mise en abyme della realtà, in cui fu il vero capo della polizia giudiziaria, Xavier Guichard, a invitare Georges Simenon, a inizio degli anni Trenta, quando già lo scrittore belga aveva dato alle stampe alcuni romanzi con protagonista il suo celebre investigatore, a trascorrere alcuni giorni al Quai des Orfèvres, per respirare la vera aria di un commissariato di polizia centrale in una delle maggiori metropoli d’Europa, e al fine di rendere più verosimili i romanzi successivi.
Simenon non se lo fece ripetere due volte, e ne approfittò anche per una serie di reportages che troviamo raccolti in Dietro le quinte della polizia (Adelphi, Milano 2022). Oltre duecento pagine che ci restituiscono l’atmosfera della Parigi anni Trenta vista dalla particolare angolazione dei tutori dell’ordine.
Il grande palazzo di giustizia è spoglio, un dedalo di scale e uffici, nei quali si incontra la più disparata umanità. E, soprattutto, ci sono i poliziotti e gli investigatori: uomini tenaci, abituati a un duro lavoro di schedatura di dati, di interrogatori, di pedinamenti, a giornate interminabili passate andando ai quattro angoli di Parigi, senza nemmeno il rimborso delle corse in taxi; uomini “che arrancano da un indirizzo all’altro”, raccogliendo pazientemente nomi, date, dichiarazioni. Ed ecco che Simenon chiede, provocatorio, ai suoi lettori: “Vi fa ancora ridere adesso sentir parlare delle loro scarpe chiodate?”.
Simenon ci mostra come si passi “dal poliziesco alla realtà” a partire da un caso-tipo: quello di una rapina in banca, realmente avvenuta nel febbraio del 1932. Si chiede dunque come si svolgerebbero le indagini in un poliziesco-tipo: il commissario Maigret arriverebbe sulla scena del delitto, “massiccio e impenetrabile come sempre, fumerebbe una decina di pipe, si farebbe portare birra e panini e alla fine se ne andrebbe con le mani infilate nelle tasche del cappotto. Per tre giorni, magari per una settimana, lo seguiremmo nei bistrot, negli alloggi privati, nelle strade, mentre continua a fumare e a bere sempre più birra, nell’attesa di posare la mano sulla spalla di un tizio, sospirando: Sei fregato, bello mio!”. Invece, il tipo di investigatore alla Sherlock Holmes “si soffermerebbe a misurare qualcosa, raccoglierebbe tre granelli di polvere, e poi, chiuso nell’appartamento di Baker Street, si metterebbe a suonare il violino per qualche ora, interrompendosi solo per dichiarare: “Uno dei rapinatori è alto un metro e settantatré, ha due denti d’oro e nel 1913 ha vissuto tra il ventiduesimo e il tredicesimo grado di latitudine nord. Un altro è divorziato. Il terzo ha i piedi delicati”.
Esagerazioni romanzesche, ovviamente, alle quali Simenon contrappone la dura, prosaica, assai meno avventurosa realtà: un paziente lavoro sugli interrogatori degli impiegati della banca, per capire a quale nazionalità possa essere ricondotto lo strano accento dei rapinatori: iugoslavo o ungherese? Il cassiere sostiene con certezza che si trattasse di ungherese, ed ecco che vengono esaminati con scrupolo tutti i seimila fascicoli relativi agli ungheresi residenti a Parigi; dopo una prima scrematura, ne restano seicento: il che significa seicento alibi da controllare e verificare. Alla fine, però, si viene a sapere che il cassiere aveva torto, e che l’accento da lui incontrovertibilmente riconosciuto come ungherese era in realtà iugoslavo, e allora bisogna ricominciare tutto da capo. Nel frattempo, stazioni, porti e posti di frontiera sono stati messi sotto sorveglianza, l’identikit dei tre rapinatori è stato mandato in tutti i commissariati del mondo, sulle strade sono stati fermati centinaia di automobilisti, negli alberghi i registri dei viaggiatori sono stati controllati con più scrupolosità del solito. Alla fine, dieci giorni dopo la rapina, viene arrestato uno dei colpevoli e ben presto anche gli altri due lo raggiungono in prigione.
Si è forse trattato del colpo di genio di un detective particolarmente brillante? Di un’intuizione alla Sherlock Holmes? Di una qualche rivelazione particolare emersa dalle indagini della scientifica? Nulla di tutto ciò! Le cose sono molto più semplici e banali: fra le banconote rubate alla banca ce n’erano alcune nuove di zecca, e gli ispettori hanno girato tutta Parigi per cercarle, sino a quando in una drogheria non è venuto fuori uno di questi biglietti di banca. Insomma: dura applicazione, lavoro metodico e infaticabile da parte di questi oscuri tutori dell’ordine, che non hanno la faccia e il fisico comunemente associati al concetto di “eroe”; eppure proviamo un brivido quando Simenon ci presenta la parete dove sono appese le fotografie dei colleghi caduti in servizio, nell’esercizio delle loro funzioni di poliziotti.
Dietro le quinte della polizia ci presenta un campionario di umanità disperata, alla deriva, che spara e uccide per i motivi più banali: storie dolorose, di uomini lasciati dalla moglie, che la sfiniscono di lettere per rivedere lei e i figli, per poi ucciderli e tentare di suicidarsi; il caso che stringe il cuore di un padre di famiglia polacco, poverissimo, che, stremato dalla miseria, uccide la moglie e i tre bambini con i quali si trova accampato nella sala d’attesa di una stazione, e poi si suicida in carcere; la storia, grottesca e dolorosissima, di due reduci della grande guerra, vicini di casa, uno dei quali, esasperato dal fatto che l’altro ascolti continuamente gli stessi sei dischi, gli scarica addosso le munizioni di un fucile; il caso, bizzarro e triste, della ricca signora sul viale del tramonto, che ogni sera, ubriaca, arrivava a Montparnasse con la sua allegra brigata, ma che, avendo la fobia dell’uniforme, se incrociava un poliziotto lo insultava, gli tirava i baffi, o si sollevava il vestito in segno di disprezzo, finita una notte, con sua grande e inspiegabile contentezza, in cella con le prostitute, che intrattenne a suon di storielle e invitò a casa sua (ma tanto allegra quella donna non doveva essere, visto che poco dopo si suicidò con un mix fatale di whisky e veronal); il giovane che si suicida col sonnifero al tavolino di un caffè, sotto gli occhi di tutti gli altri avventori, che lo credono crollato in un sonno riparatore, mentre, con apparente indifferenza, sfoglia il giornale, disperato perché il padre della ragazza da lui amata gli ha negato la sua mano; l’aspirante “duro”, il bulletto di periferia, che progetta la sua prima rapina in una modesta mescita, finendo per venire malmenato dai padroni, due provinciali dall’aria paciosa, ma dall’animo combattivo; l’esercito degli scomparsi, di ogni ceto e di ogni età, fra i quali tanti bambini; la ragazzina, appena quattordicenne, che un giorno si è presentata alla portineria di un ospedale parigino, e mentre l’usciere le andava ad aprire si è sparata alla testa.
Insomma, una sfilata della più varia e vasta umanità corredata da fotografie che ci aiutano a ricostruire l’atmosfera nella quale Simenon ci cala magicamente. Tocco di classe, che già da solo vale la lettura: il reportage sulla partenza dei galeotti dal porto de La Rochelle per il bagno penale (La carovana del crimine).
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