Mentre Macron dichiara che la Francia è entrata in un’economia di guerra, Draghi rassegna le dimissioni ed in questa torrida estate si continua a parlare del “freddo” inverno che ci attende per le conseguenze di un conflitto senza speranza di una rapida e positiva evoluzione, mi torna in mente questa frase: “L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”.
Così Franklin D. Roosevelt, il 4 marzo 1933, si esprimeva a proposito della condizione di depressione economica che attanagliava gli Stati Uniti, evidenziando come più terrificante della povertà e della disoccupazione fosse proprio la paura stessa, affetto pietrificante ed inibente ogni iniziativa.
Una frase, quella di Roosevelt, che connette in maniera cristallina la depressione economica alla depressione psichica. Spingendoci più in là potremmo domandarci se possa esistere una depressione economica che non sia innanzitutto depressione psicologica. “Fallisce prima l’azienda o il pensiero del suo imprenditore?”, domandavo qualche giorno fa ad un acuto industriale, con non pochi anni di esperienza, il quale sorridendo sorpreso, segnalava l’interrogativo meritevole di riflessione.
Da Giacomo B. Contri, psicoanalista milanese recentemente scomparso, ho imparato che le malattie mentali sono malattie economiche, diagnosticabili prima che con criteri clinici, utilizzando tre indici osservativi, sotto gli occhi di tutti, eppure nient’affatto ovvi. I tre assi diagnostici di quella diseconomia quotidiana che è la psicopatologia sono: lucro cessante – fine del profitto, di ogni profitto –, danno emergente – corporeo, materiale, relazionale – e terzo, ma non per rilievo, lucro non emergente. Quest’ultima condizione si realizza quando il soggetto, sia esso l’imprenditore piuttosto che l’uomo comune, non si serve più di quella forza lavoro che è il pensiero, per prendere iniziativa, foss’anche il raccogliere l’offerta ricevuta. Mentre il lucro cessante ed il danno emergente sono ben contabilizzabili, il lucro non emergente non viene solitamente riconosciuto; in quanto non emerso, resta invisibile, non percepito benché percepibile, poiché l’inconscio sa sempre registrare la rinuncia.
È di questo lucro non emergente che si parla, senza saperlo, quando si pronunciano frasi quali: “chi me lo fa fare?!”. Un’espressione di uso ordinario, udita mille volte, ma che ho compreso solo di recente nel suo senso più radicale mentre, in fila alla cassa di un negozio, l’ho sentita ripetere, con insistenza, da due giovani donne.
Entrambe – una cliente e l’altra commessa – si raccontavano di aver appena dato le dimissioni, comune circostanza, commentata concordemente con l’espressione: “ma chi me lo fa fare?!”.
Ascoltandole, mi sono tornati in mente alcuni dati relativi al fenomeno sociologico delle “grandi dimissioni”, un trend che nel 2021 ha investito il 60% delle aziende italiane, mettendone molte in ginocchio, dopo aver iniziato a manifestarsi negli Usa, negli anni precedenti la pandemia.
Flotte di lavoratori, molti tra i 26 e 34 anni, lasciano il posto di lavoro, volontariamente e non sempre per uno migliore, adducendo come motivazione alla base della scelta una “cultura aziendale tossica”, dieci volte più frequentemente rispetto ad un salario considerato inaccettabile. Interessante sarebbe analizzare, senza impantanarsi in luoghi comuni ed evitando generalizzazioni che non aiutano a comprendere il profilo reale delle questioni, cosa sia percepito “tossico” nella cultura aziendale dai dimissionari o quanto di “tossico” possa esserci invece nel quotidiano pensiero diseconomico, incapace di intraprendere, ed ancora, come si intersechino tossicità sociali, culturali ed individuali.
Chi me lo fa fare?” non significa infatti “ho trovato di meglio”, “ho altre aspirazioni”, “sto avviando un certo progetto”, o “ricomincio a studiare”. “Chi me lo fa fare?!” è piuttosto disinvestimento di energie fisiche e forza lavoro psichica, è resa, è ritiro in uno stato di non lavoro, in attesa di qualcosa di meglio, che potrebbe o dovrebbe – troppi condizionali – collocarsi in un tempo futuro non precisato.
Attualizzando la frase di Roosevelt la si potrebbe così correggere: “L’unica cosa di cui aver paura, ancor più della paura è del chi me lo fa fare?!”, della rinuncia e del ritiro in una condizione di lucro non emergente, in cui l’esistenza rimane sospesa.
Come spesso accade di osservare durante un’analisi, anche in questo caso, nella medesima frase che descrive la crisi e la psicopatologia si rintraccia la soluzione. Se l’affermazione delle due giovani donne sottende infatti l’idea che nessuno prescriverebbe loro un lavoro frustrante o deprimente, nessun capo, nessun organo di comando può obbligarle a lavorare, dall’altro lato, tolto il punto interrogativo, la stessa frase diviene affermativa e traducibile con: “chi me lo fa fare”, ovvero “è chi, colui che me lo fa fare”. L’accento viene così a cadere sul pronome “chi”, consentendoci di concludere che il motivo per cui si fanno le cose ha sempre a che fare con un soggetto. La meta del moto è solo residualmente oggettuale – denaro, proprietà, ecc. – essendo invece in primis sempre soggettiva. Il “chi” capace di sollecitare un’iniziativa può essere il soggetto stesso – “lo faccio per me, a favore della mia persona, per la mia soddisfazione” –, o un altro soggetto, a cui si tiene e per mezzo del quale sorge un’idea, un desiderio, un’ambizione, una meta, che quando raggiunta si rivela reciproca, e dunque almeno a due posti. La soddisfazione crea posti – anche di lavoro –, non li riduce.
Ne segue, con lapalissiana evidenza, che la soluzione non consiste in primis nell’innalzamento dei salari – obiettivo senza dubbio urgente, in particolare per certe fasce di reddito –, ma nella valorizzazione del “chi” e delle sue istanze, del suo desiderio di successo, come messa in opera di qualcosa che non c’era già, ma che il lavoro con altri e per mezzo di altri consente di porre in essere.
Il lattante, ossia l’uomo nel suo incipit, documenta questa forma del procedere umano che permarrà, per quanto contrastato, per tutta l’esistenza: lavorare alla ricerca della soddisfazione, attraverso l’apporto di altri. Chi succhia e chi allatta. L’umanità si regge – quando ci riesce e non si deprime – sul lavoro, articolato in almeno due sedi, quella di un soggetto e quella di un altro, che si “alimentano” reciprocamente. Per inciso, può essere utile ricordare che nell’allattamento il piacere non è solo del bambino.
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