“Gli uomini, non potendo guarire la morte, hanno preferito non pensarci, sperando di essere più felici”. Lo scriveva Pascal, nato esattamente quattrocento anni fa, ma da allora le cose sono cambiate. In peggio. Il tabù che un tempo circondava il sesso oggi si è trasferito su quello che il cristianesimo chiama transito. È indicativo, anzi, che nei vocabolari oggi più diffusi il significato principale di quest’ultima parola riguardi il traffico (“treno in transito”), l’astronomia e perfino la digestione (“transito esofageo”), mentre soltanto in fondo all’elenco compare la sua accezione religiosa.



La morte non è certo un argomento leggero, ma dovrebbe essere tra quelli che più ci interessano. Etimologicamente “inter-esse” vuol dire essere dentro, e quale altro evento ci ingloba così indistintamente tutti? A renderlo interessante, comunque, e a offrirci tanti motivi di riflessione, provvede oggi il libro di Michele Dolz I volti della morte. Dalle catacombe al cinema e oltre (Ares, 2023). Merito del saggio è l’invidiabile chiarezza della scrittura, l’altrettanto notevole capacità di sintesi, che racchiude un paio di millenni nella cornice delle sue pagine, e soprattutto un efficace gioco di rimandi tra opere d’arte e testi letterari.



L’argomento del libro è infatti la raffigurazione della morte nell’arte, dalla pittura e dalla scultura al cinema, ma a fare da contrappunto alle immagini, utilmente commentate, l’autore riporta tanti scritti che di quelle immagini sono l’ispirazione o il parallelo. La sua prospettiva, nitidamente cristiana, non ha bisogno di dissimularsi (nato nel 1954 in Spagna a Castellón, non lontano da Valencia,  Dolz è sacerdote, oltre che critico, storico e artista, non necessariamente in quest’ordine).

Il saggio muove dall’arte dei primi secoli dopo Cristo, che non raffigura mai la morte, ma ne coltiva una visione serena, confortata dalla speranza nella salvezza. Contrariamente a quanto molti pensano, infatti, il cristianesimo non nasce come una morale, come un elenco di precetti e divieti, di buone azioni da compiere e peccati da evitare, ma viene subito inteso come una forma di vita, nel senso più pieno del termine. Il cristiano è un uomo che rinasce e “vive la vita soprannaturale di Cristo” (p. 15).



Come mai allora l’iconografia funeraria, dopo l’età paleocristiana, si esprime soprattutto in forme drammatiche, minacciose, macabre? Il mutamento avviene quando, nei secoli successivi, si afferma l’idea che per raggiungere la perfezione evangelica si debba fuggire dal mondo, anzi disprezzarlo: una concezione che Cristo non ha mai espresso e nei Vangeli non si trova. Il concetto di svalutazione del mondo, peraltro, era già presente nello stoicismo pagano, a partire da Cicerone e Marco Aurelio. Dal disprezzo della vita terrena all’orrore della morte che conferma quel disprezzo, il passo è breve.

Dolz ci conduce per mano lungo i secoli, analizzando – sempre con l’aiuto di testi letterari, filosofici, religiosi  dell’epoca – i temi del Trionfo della Morte e quello, tipico del Quattrocento, della Danza Macabra, con il loro corteo di scheletri; la diffusione dell’Ars moriendi, un libretto quattrocentesco che si concentra sul travaglio interiore del morente; la ritrovata serenità del Rinascimento, espressa in modo insuperabile da Jacopo della Quercia nel sonno leggiadro di Ilaria del Carretto; la teatralità del Seicento, dove i teschi compaiono spesso fra particolari morbosi. Si giunge così al Settecento, che si oppone alla magniloquente iconografia barocca e rappresenta laicamente la morte come sonno. Una malinconia metafisica si sostituisce allora alla speranza della vita eterna. Nei monumenti funerari del secolo dei lumi “non ci sono segni macabri, né scheletri o teschi. Tutto è sereno, ma tutto è triste” (p.182).

Il Novecento, infine, accanto ad alcuni capolavori come Il settimo sigillo di Bergman o i quadri di Warhol, ha visto una crescente spettacolarizzazione del tema, che si è diffusa nella televisione, in rete, nei giochi virtuali, paradossalmente in parallelo con la rimozione del concetto di morte nella nostra società e con l’affievolirsi della predicazione sui Novissimi nelle nostre chiese. “La riduzione del male a spettacolo ha un effetto anestetizzante o straniante … L’esibizione ricopre il terribile reale con un velo di finzione che finisce per generare insensibilità” scrive Dolz. La morte virtuale, insomma, nasconde la morte reale, come il suo libro ci ricorda.

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