“Vivi, ama, desidera”. Con questi tre obiettivi, Teatro deSidera ha coraggiosamente intrapreso il suo cammino milanese: lo ha fatto un po’ in ritardo, in mezzo a un panorama teatrale tutt’altro che scarno e silenzioso, con quella spericolatezza, quella vivida impazienza che denuncia il cuore giovane dei suoi tre direttori (Giacomo Poretti, Luca Doninelli e Gabriele Allevi). Lo ha fatto così. Perché quando il desiderio urge e ci solleva lo sguardo, a nulla valgono le scuse e le cautele: non si può differire, esitare tra un “aspetta” e un “magari la prossima volta”. Si può solo partire, con la meta negli occhi e la speranza nel cuore. E forse davvero quella del trio non è una speranza ingenua, se nasce de sidera: se sorge cioè direttamente da quella meta osservata, da quella volta accesa di stelle che inonda lo sguardo e invita al coraggio.



E così, per il primo evento di questa scommessa teatrale, Giacomo Poretti e la simpaticissima Daniela Cristofori si sono affacciati dal palco su una platea ancora tutta da scoprire, con un raccolto (ma calorosissimo) pubblico ad attenderli: e la seconda sera era già quasi sold-out. E sempre così, con la trepida eccitazione di chi si allaccia le scarpe sulla soglia di casa, stiamo aspettando ora l’arrivo dell’attore-autore Dario De Luca e del suo acclamato spettacolo, “Il vangelo secondo Antonio”.



Sì, allacciandoci le scarpe. Perché quello che promette De Luca è un viaggio impegnativo: anzi, di più, è una discesa infernale. Un cammino che precipita nell’oscurità di uno dei misteri umani più dolorosamente impenetrabili: quello dell’Alzheimer, la malattia che solo in Italia afferra e travolge le vite di più di un milione di persone.

Nella storia immaginata da De Luca vittima di questa malattia è Don Antonio, un parroco di una piccola comunità, vicario generale del vescovo. L’Alzheimer lo coglie inaspettatamente: tra le cure della sorella perpetua e quelle di un giovane diacono, il parroco vede a poco a poco svanire le tracce mnemoniche della sua storia. I ricordi, frammenti di un’esperienza vissuta, si confondono tra la rabbia e lo sbigottimento: le certezze di un’intera esistenza sembrano sbiadire. Si spalanca una crepa, improvvisa e insanabile: una voragine tra una fede ancora viva, viscerale, radicata nella quotidianità del tempo, nel sapere rituale della carne, e la ragione che cede e si sfalda, perdendosi irrimediabilmente. Uno iato tragicomico, tra l’altezza di una missione sacra, la vocazione pastorale, e la debolezza di un uomo che grottescamente confonde i segni del rapporto cui ha donato la propria vita, arrivando a smarrire perfino sé stesso.



Così, con una fedeltà al reale che pare totale, capace di dosare profondità drammatica e genuino umorismo, il testo di De Luca ci pone di fronte ad un interrogativo disarmante: oltre la notte della memoria, nel silenzio della ragione, cosa resta all’uomo della sua identità? Dissipato il ricordo di ogni sua esperienza, venuta meno la consapevolezza di una storia, dove può trovare il senso che dà fondamento alla sua essenza? Chi è l’uomo, se dimentica sé stesso?

Ma ogni inferno – insegna Dante (che la stagione di deSidera, non a caso, non ha potuto non proporre tra i suoi protagonisti) – ha il suo “pertugio tondo” da cui s’intravede il cielo. Quando persino la luce della ragione si spegne e il pensiero è perduto, l’uomo ritorna come bambino: è di nuovo neonato, privo del controllo, bisognoso di tutto. Nei celebri versi che danno avvio alla sua opera, Dante si presenta proprio così: smarrito. E smarrito, certamente, è Don Antonio. Ma è proprio allora – se vogliamo credere al poeta fiorentino – è nel buio più totale della notte, che è possibile riscoprire l’unico punto a cui si vuole tornare.

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